trinitàRiportiamo di seguito, come spunto di riflessione, uno stralcio del cap. 4 del libro del card. Angelo Scola “Come nasce e come vive una comunità cristiana” (Venezia, 2007, Marcianum Press editore).

Genesi e natura della missione

La genesi della missione, della testimonianza, è molto limpida e chiara. È Gesù stesso a mostrarla: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21). Quindi la missione nasce all’interno della Trinità. La radice della missione è la comunione trinitaria: la missione è possibile perché l’unico Dio è trino, perché c’è una comunione di amore che circola tra il Padre, il Figlio e lo Spirito,a partire dalla quale il Padre può mandare il Figlio e, nel Figlio, lo Spirito; il Figlio può lasciarsi mandare e lo Spirito può assumere, nell’essere mandato dal Padre e dal Figlio, la sua missione.

L’origine trinitaria – nell’amore, nella comunione – della missione è fondamentale perché ci libera dal rischio di pensare che la missione sia l’impeto della nostra generosità o la conseguenza del nostro fare. È naturale, perché ognuno di noi, istintivamente, mette subito se stesso in primo piano. Così si è tentati di pensare alla missione più o meno nei seguenti termini: “va bene, adesso ho incontrato queste belle cose e, quindi, devo darmi da fare”. No! La missione, come la fede, ti precede in maniera assolutamente e radicalmente altra. Incomincia dall’interno della permanente vita dell’evento di comunione, cioè di amore, della Trinità. Incomincia con il lasciarsi mandare dal Figlio e dallo Spirito nel Figlio. Perciò, quando parliamo di missione, dobbiamo subito lasciarci provocare alla conversione. Non dobbiamo, paradossalmente, guardare subito fuori di noi, ma dobbiamo guardare verso l’alto, verso la sua origine.

Dalla Trinità questa missione ci è sacramentalmente partecipata mediante il dono dello Spirito Santo, nella comunità cristiana. Dice in proposito Benedetto XVI: «La nostra vocazione e il nostro compito di cristiani consistono nel cooperare perché giunga a compimento effettivo, nella realtà quotidiana della nostra vita, ciò che lo Spirito Santo ha intrapreso in noi col Battesimo: siamo chiamati infatti a divenire donne e uomini nuovi, per poter essere veri testimoni del Risorto e in tal modo portatori della gioia e della speranza cristiana nel mondo, in concreto, in quella comunità di uomini e di donne entro la quale viviamo».

La partecipazione alla comunione e missione trinitarie si esprime visibilmente nella comunione dei cristiani. In merito vale la pena di citare un bellissimo passaggio di don Germano Pattaro: «A questo proposito è opportuno stabilire che la “prima persona”, che è all’origine del Kerigma, è la comunità cristiana presa nel suo insieme. Essa si presenta come unacomunità testim oniante, al cui interno, e solo in dipendenza inter-relazionale, si colloca e si esprime la testimonianza del singolo. Ci sembra che questo particolare modo del Kerigma rafforzi la sua condizione di evento storicamente significativo. La testimonianza, cioè, non si propone per linee parallele ed autonome o tra loro dialetticamente competitive; in questo caso, in dipendenza dal fatto che la testimonianza riguarda il Cristo che salva, ogni testimone esprimerebbe un canale storicamente privilegiato e compiuto. L’unico Cristo degli apostoli, fa degli apostoli, l’unico ‘collegio’ di Cristo. La koinonia è la condizione non superabile di ogni evento cristiano: l’intero corso della testimonianza si compie a partire dalla comunità testimoniante, e in dipendenza di essa, sia sotto il profilo  issionario di testimonianza che è data al mondo, sia sotto il profilo culturale di testimonianza data alla comunità stessa». In questo senso tutto ciò che sottraiamo alla comunione, lo sottraiamo alla nostra esperienza cristiana. E questo ci rende impacciati nella missione o ce ne fa equivocare la natura. «Come tu sei me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21).

Chiamati ad essere una cosa sola: ecco l’unità che è alla genesi; perché anche in Dio vive la pluriformità nell’unità. Le Persone della Trinità sono perfettamente identiche nella sostanza e assolutamente differenti nella loro personalità.

«Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna; poiché tutti [è sottolineato] voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). La legge della comunione, quindi, è di essere senza confini, universale, cattolica. Perciò – ecco un’importante conseguenza – porre un limite non è ridurla, è abrogarla. Se io pongo un limite alla comunione, se non vivo un’apertura incondizionata verso tutti e verso tutto, io falsifico la comunione, la perdo. Non è che la realizzo al 80%; non la realizzo, tout court. Quindi l’universalità è parte costitutiva della missione perché la comunione, per sua natura, è universale. «Ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (…) noi lo annunziamo anche a voi perché siate in comunione con noi» (1Gv 1, 1-3). Questo voi è tutti. La forza missionaria della Chiesa sta, quindi, nella potenza della sua unità e nell’attrattiva che essa genera intorno a sé. «Che siano una sola cosa» (Gv 17, 21) e «Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme! È come olio profumato sul capo che scende sulla barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste. È come rugiada dell’Ermon che scende sui monti di Sion» (Sal 132, 1-3) dice il Salmo. Questa unità è bellezza. Unità di uomini liberi. Unità che valorizza tutte le differenze, che le differenze non riescono a spezzare perché l’unità le precede, le tiene dentro tutte. Se tiene dentro la differenza assoluta e perfetta che si dà in Dio, e se noi viviamo della fede in Colui che ci ha comunicato questa logica profonda, questa esperienza profonda di comunione, non dobbiamo avere paura di nessuna differenza né di spalancarci a tutti.

È opportuno aggiungere due corollari di grande importanza. Il primo: come la persona di Gesù Cristo non è separabile dalla sua missione, così anche la missione della Chiesa e del cristiano non si aggiunge alla persona della Chiesa; è inseparabile dal suo stesso porsi. Quando la Chiesa è autentica è missionaria. La Lettera agli Ebrei (cfr. Eb 3, 1) definisce Gesù, in senso assoluto, come il mandato. La persona di Gesù coincide con la Sua missione. Non c’è prima la Sua persona e poi la Sua missione. A differenza del Battista, a differenza di Geremia. In ogni uomo resta sempre una distinzione tra il suo sussistere come persona e il suo essere mandato. In Gesù no. In Gesù persona e missione coincidono. Quindi noi non possiamo non tendere a questa unità. La missione non è un’aggiunta che io posso porre o non porre. Essa scaturisce dalla natura stessa del mio incontro personale con Cristo. La missione della Chiesa non si aggiunge dall’esterno alla persona comunionale della Chiesa, ma è ad essa intrinseca. Di qui la spinta paolina a comunicare. Paolo ha viaggiato con l’ansia di comunicare a tutti la bellezza dell’incontro con Cristo, suscitando comunità dovunque è passato; e preoccupandosi poi che queste comunità fossero capaci di vivere questa stessa esperienza e di farla vivere a chiunque.

Il secondo corollario mette in evidenza come concretamente viene vissuta questa universalità. La missione che sgorga dalla comunione ha le dimensioni del mondo a partire dalla prossimità. La legge per raggiungere l’universale è la prossimità. Si tratta di riconoscere quei rapporti che, gerarchicamente, ognuno di noi è chiamato a vivere nella sua esistenza e di partire da lì. È giusto che uno aneli ad incontrare ed amare tutti. Ma la strada per amare tutti è che ami bene sua moglie, che ami bene i suoi figli, che ami bene i suoi cari, che ami bene i membri della sua comunità, che ami bene i membri della sua comunità civile, che ami bene i suoi compagni di lavoro. È questa gerarchia che mi educa all’incontro e all’amore. Altrimenti non si gioca la nostra persona nell’esperienza dell’incontro e dell’amore.

La legge della prossimità come metodo per raggiungere l’universale rende evidente sia l’orizzonte dell’appartenenza che quello della preferenza nei rapporti: appartenere ad una comunità, vivere una preferenza nei confronti di alcuni volti decisivi per la propria storia di fede, è la strada concreta – e questo non può non implicare una dimensione di distacco, di sacrificio – per aprirmi permanentemente all’universale. Solo così appartenenza e preferenza rispettano la loro vera natura.