Continua la proposta estiva attraverso la quale verranno forniti spunti di riflessione quotidiani secondo cinque diversi filoni tematici: Visita pastorale, Oasis 2011, Libri per l’estate, Film e Il Papa a Nordest.

Il lunedì  sarà il giorno dedicato ai “Film per l’estate”.

Il cinema è la lingua franca della nostra società. È un mezzo formidabile per indagare la verità sul mondo. Spalanca la nostra esperienza in modo assai spesso più efficace di tanti discorsi e di tanti libri.”

(card. Scola al XXXI Meeting di Rimini)

FILM  PER L’ESTATE – La proposta di questa settimana è “Matrix”, un film del 1999 scritto e diretto dai fratelli Andy e Larry Wachowski.

Nel XXII secolo il Grande Fratello ha trasformato il mondo in un universo virtuale, cioè simulato, simile a quello dell’ultimo XX secolo, grazie al gigantesco computer Matrix, collegato con i cervelli degli esseri umani. Thomas Anderson (K. Reeves) detto Neo, asso dell’informatica, si aggrega a un gruppo di resistenti il cui capo Morpheus (L. Fishburne) crede di avere riconosciuto in lui l’Eletto, destinato a svegliare l’umanità dal sonno cibernetico e a lottare contro i poteri del Male che l’hanno ridotta in schiavitù. Prodotto da Joel Silver per la Warner a 70 milioni di dollari, girato a Sydney (Australia), scritto e diretto dai trentenni fratelli Wachowski che con altri quattro figurano anche come produttori esecutivi, è sicuramente il più costoso, probabilmente il più cupo, forse il più fantasioso cyber-action movie degli anni ’90. Frutto di una disinvolta ibridazione tra il cinema d’arti marziali di Hong Kong, l’ideologia violenta del videogame, la fantascienza alla P.K. Dick e la grafica dei fumetti, è un giocattolone divertente a livello figurativo e scenografico e sul piano dell’azione: sdoppiamenti, combattimenti, effetti speciali a iosa. Nel resto è un pastrocchio saccente e misticheggiante diretto a spettatori con una mentalità da dodicenni idioti. I suoi fautori, interessati e non, sostengono che bisogna vederlo tre volte: la prima per l’impatto emotivo, la seconda per capire la storia, la terza per coglierne i significati più profondi.

“[…] in Matrix viene descritto il nostro mondo di tutti i giorni, ma si fa l’ipotesi che sia solo un paravento per nascondere la realtà vera. Quale sarebbe? L’umanità sopravvissuta dopo un disastroso evento cosmico, per continuare ad esistere ha avuto bisogno di speciali macchine. E queste hanno finito per prendere il sopravvento. E chi le controlla ha preso il potere. L’umanità quindi vive nell’illusione. Gli uomini non sono più liberi. Nessuno è a conoscenza del tempo che è passato da quando il potente neurosimulatore matrix ha assegnato una data fittizia allo scorrere della storia. Solo Neo, con l’aiuto del pirata informatico Morfeo e della bella Trinity, può tentare di scoprire la verità e far ritrovare agli uomini la libertà. In cosa consiste la verità? Lo dice con chiarezza Morfeo accogliendo Neo sulla sua bislacca nave in lotta per la libertà: “Benvenuto nel mondo reale”. Riflettiamo un istante su questa affermazione in cui sono presenti due elementi fondamentali.

Il primo è identificato dall’espressione mondo reale, cioè le cose come veramente sono. Quelle che i miei sensi percepiscono – questo bicchiere, il microfono, il cielo, il mare – e quelle di cui mi offrono qualche indizio perché la mia intelligenza possa riconoscerli: lo sguardo di chi ho di fronte, il sorriso dei figli, il volto dell’amata, il gusto del lavoro, la sofferenza per il male fisico, il dolore per quello morale, la paura della morte, l’angoscia annoiata del vivere senza senso… Il mondo reale appunto!

Ma l’affermazione di Morfeo contiene anche un altro decisivo fattore, concentrato nella parola composta: “Benvenuto”. È bene che tu Neo sia entrato nel mondo reale: è bene per te, ed è bene per noi! Non è forse questo il senso dei primi sorrisi di una madre al suo bambino? Sorrisi che questi impara subito a ricambiare. Cosa significano se non “è bello che tu sia venuto al mondo (reale), è bene per te, è bene per tutti”? Nessuno sfugge a questa esperienza.

Al mondo reale io mi rapporto sempre e inevitabilmente secondo quella dinamica, tipicamente umana, che possiamo identificare col termine desiderio. Non si comprende la parola desiderio, tanto meno se si parla di desiderio di Dio, se non la si concepisce come il tendere di tutto il mio io all’incontro, inevitabile ed insuperabile, con il mondo reale. Infatti, secondo la definizione semplice ma completa del vocabolario, desiderio è il “volgersi con affetto a qualcosa che non si possiede e che piace”. Vedete che, come in una calamita, sono sempre presenti due poli. La dinamica del desiderio implica sempre e inseparabilmente la cosa che non si possiede e che piace e il volgersi ad essa con affetto. Sottolineo “con affetto”, vale a dire con la mente, col cuore, con la totalità del nostro io.

E Dio che c’entra?

Ve lo dico con una citazione formidabile, tra le più potenti di tutta la storia del pensiero, che si trova in un grande libro, ancora oggi, dopo 1600 anni, il più ristampato (se si toglie la Bibbia). «Tu ci hai creati per te ed il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» [1]. Agostino usa la parola cuore per esprimere il desiderio nella sua ampiezza totale costituita dai due poli prima identificati: l’io che anela all’infinito nell’incontro con la realtà totale. Viene subito in mente la suggestiva etimologia della parola desiderio di don Giussani: de-sidera, dalle stelle.

Il termine cuore è decisivo in tutta la Sacra Scrittura e perciò in tutta la tradizione giudaica e cristiana. In particolare noi occidentali non riusciamo a prescindere dall’impiegare il termine cuore secondo tutta l’intensità che lo connota. Qual è? “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore”. Per dire il carattere necessario, imprescindibile del cuore don Giussani scomoda una parola dura, oggi assai discussa, ma insuperabile: natura. Potremmo dire che la natura piena del desiderio è rivelata in ognuno di noi dal cuore. Il cuore quindi è ciò che ci permette di volgerci con affetto a ciò che non si possiede. Soprattutto alle cose grandi!

E cosa c’è di più grande di Dio?[2] Quella realtà di cui non si può pensare niente di più grande? A tal punto che non si trova pace (inquietum cor) fin che non si riposa in Lui. Desiderare Dio è la grande aspirazione dell’uomo: «Il tuo volto, Signore io cerco, non nascondermi il tuo volto» (Sal 26, 8-9).

Come ha affermato uno dei più grandi filosofi viventi, il tedesco Robert Spaemann: anche se in tutti i tempi qualcuno o molti pensano, teoricamente o praticamente, che Dio sia morto, perché allora la diceria di Dio è immortale?[3] Perché non si riesce a metterla a tacere? Perché la natura del cuore, cioè il desiderio profondo di ogni uomo e di ogni donna, si porta dentro, come un quotidiano, ineliminabile rumore di fondo, questa presenza? La risposta si impone in qualche modo da sé: senza questa presenza alla fine nessuno potrebbe dirti: “Benvenuto nel mondo reale”!

Infatti, ogni uomo identifica con questo vocabolo il termine ultimo del proprio desiderio: ciò per cui vale la pena fino in fondo vivere, anche solo cinque minuti, ciò per cui la vita nel mondo reale è un bene e non un male. […]”

(da “Desiderare Dio. Chiesa e post-modernità”)