EDUCAZIONE – Viene pubblicato qui di seguito il testo della lezione del Patriarca tenuta in occasione del Dies Academicus della Pontificia Università Salesiana sul tema “Paideia e università”:
1. Paideia e società post-moderna
Un’efficace osservazione di Jacques Maritain può aiutarci a precisare il titolo, assai ampio, di questa prolusione. Nel suo ancor attuale volume Per una filosofia dell’educazione il celebre pensatore francese afferma: «La cosa più importante nell’educazione non è un “affare” di educazione, e ancora meno di insegnamento…». Infatti: «L’esperienza, che è un frutto incomunicabile della sofferenza e della memoria, e attraverso la quale si compie la formazione dell’uomo, non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso»[1].
Viene introdotta ex-abrupto come categoria portante del processo educativo la complessa nozione di esperienza. Cominciamo allora col dire che la scelta del termine paideia intende far riferimento a questo appassionante paradosso educativo nella sua articolata unità. Insegnamento ed educazione hanno bisogno di coinvolgimento reciproco di vita, di esperienza in senso pieno e tuttavia questa esperienza non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso. L’osservazione riceve luce, tenendo conto della natura di questa università, che quest’anno festeggia il 60° di fondazione e il 37° dell’elevazione ad Università, da un importante rilievo di Benedetto XVI: «Specialmente quando si tratta di educare alla fede, è centrale la figura del testimone e il ruolo della testimonianza. Il testimone di Cristo non trasmette semplicemente informazioni, ma è coinvolto personalmente con la verità che propone e attraverso la coerenza della propria vita diventa attendibile punto di riferimento. Egli non rimanda però a se stesso, ma a Qualcuno che è infinitamente più grande di lui, di cui si è fidato ed ha sperimentato l’affidabile bontà. L’autentico educatore cristiano è dunque un testimone che trova il proprio modello in Gesù Cristo, il testimone del Padre che non diceva nulla da se stesso, ma parlava così come il Padre gli aveva insegnato. Questo rapporto con Cristo e con il Padre è per ciascuno di noi, cari fratelli e sorelle, la condizione fondamentale per essere efficaci educatori alla fede»[2].
In questa sede – si sarà compreso – noi non intendiamo riferirci alla paideia in senso stretto come modello educativo in vigore nel mondo greco-romano, se non perché questo modello, rinascendo in continue trasformazioni col sorgere di nuove culture (non escluse quelle religiose e quelle cristianamente riferite), sottende, almeno descrittivamente, tutti i fattori (paideia fisica, paideia psichica, orientamento all’ethos e all’ethos dei popoli) necessari ad identificare l’azione educativa propria non soltanto della scuola e dell’università stessa ma, più in generale, di tutta la società e riguarda tutto l’arco dell’umana esistenza
Se con Gevaert possiamo definire valore: «tutto ciò che permette di dare un significato all’esistenza umana, tutto ciò che permette di essere veramente uomo… (i valori non esistono senza l’uomo che con essi è in grado di conferire un significato alla propria esistenza)»[3], vediamo come il postmoderno, nel rigettare la plausibilità di un significato globale dell’esistenza, finisca per mettere in discussione non solo la nozione di valore ma la stessa idea di soggetto come entità autocosciente e personale[4]. Perciò non sarebbe più possibile parlare di una vera e propria impresa educativa (paideia), ma ci si dovrebbe limitare a parlare di istruzione.
Al di là del dibattito sulla natura post-secolare della nostra epoca conta rilevare che la domanda di “senso” e di “significato” (rispettivamente nomen intentionis e nomen rei, secondo la terminologia scolastica) – e quindi la domanda ultimamente religiosa – si ripropone a livello personale e sociale in forme inedite e chiede di essere interpretata.
Tenendo ben conto del quadro tracciato resto convinto che la nozione di paideia, intesa nel senso largo suggerito da Maritain, sia anche oggi in grado di fornire il terreno di base per garantire quella “cura delle generazioni” che è il proprium di ogni esperienza educativa. Ed è la nozione di esperienza a consentire questa possibilità. Al di là della sua criticità, la ricerca di senso e di significato trova un punto di sicuro approdo in quella che genialmente Karol Wojtyla, in Persona e atto, definiva come esperienza elementare, cioè comune ad ogni membro della famiglia umana: «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza dell’uomo, in quanto basato sull’intera continuità dei dati empirici. Oggetto dell’esperienza è non soltanto il momentaneo fenomeno sensibile, ma anche l’uomo stesso, che emerge da tutte le esperienze ed è anche presente in ciascuna di esse»… «L’atto costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela. Esso ci permette nel modo più adeguato di analizzare l’essenza della persona e di comprenderla nel modo più compiuto. Sperimentiamo il fatto che l’uomo è persona, e ne siamo convinti poiché egli compie atti»[5].
La forza di quell’avversativa – «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza dell’uomo» – trapassa di colpo la complessità in cui versa oggi la nostra società, soprattutto in ciò che ha a che fare con la paideia.
Si potrà così riformulare il concetto di valore, tenendo conto della critica mossagli dal pensiero post-moderno ma evitando di cadere nella tentazione di dire che, al fondo, non esistono valori giacché ogni loro significato sarebbe in fondo frutto di una negoziazione o di un rapporto di forza. L’equivoco circa la loro natura può essere risolto chiarendo che i valori non sono oggetti, né concetti astratti cui attenersi a priori, ma fanno parte del rapporto costitutivo tra il soggetto e le persone, le cose e le circostanze, identificandone una “consistenza” qualitativa. Un’educazione ai valori è quindi impossibile se si elude il rapporto tra la persona e la comunità – e quello di entrambe con il mistero, il «reale inafferrabile», come diceva Buber – all’interno del quale il valore può essere effettivamente comunicato dando un significato e una direzione all’esistenza[6].
Come acutamente si afferma nel volume curato dal Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, dal titolo “La sfida educativa”[7], «Ciò che dà vita e vigore a quanto vale (valore) è, dunque, ciò cui esso mira, cioè l’esperienza che se ne può fare)…»[8].
2. Paideia: libertà e realtà
Dall’inizio della sua esistenza e poi per tutta la vita, l’uomo si trova “gettato” in una trama di rapporti decisivi (a partire da quelli con i genitori, coi fratelli, coi nonni e oggi sempre più spesso coi bisnonni). Il suo impatto con la realtà avviene all’interno di queste relazioni buone attraverso le quali è la stessa struttura intelligibile del reale a suggerire il metodo più adeguato per ogni avventura educativa. Se è il reale a offrirsi al soggetto, compito dell’educatore sarà quello di introdurre l’educando ad una esperienza integrale della realtà che lo guidi a decifrarne il significato. Nel suo regalarsi alla mia libertà, la realtà mostra dunque di possedere già un logos, è intelligibile, come già affermava il realismo classico. Ciò domanda che l’io eviti di elaborare, in modo astratto (ab-[s]tractus/separato), una conoscenza da cui debbano poi scaturire delle applicazioni pratiche. La realtà, offrendosi per farsi conoscere, domanda invece un atto di decisione del soggetto. E così mette in luce la natura di persona del soggetto stesso. Infatti è proprio l’atto «il particolare momento in cui la persona si rivela»[9]. Ci troviamo al cuore di quella che Giovanni Paolo II e von Balthasar definiscono un’“antropologia adeguata”. Un’antropologia consapevole del fatto che quando l’uomo inizia a riflettere su di sé e sul reale può farlo solo dall’interno del suo “esserci”: «Noi possiamo interrogarci sull’essenza dell’uomo soltanto nel vivo atto della sua esistenza. Non esiste antropologia al di fuori di quella drammatica»[10].
Questo stesso fatto ha un’ulteriore conseguenza. Uno dei tratti propri dell’ “esserci” del soggetto nel mondo è la sua obiettiva impossibilità di fare completa astrazione dalla tradizione nella quale egli si trova inserito, e che gli si manifesta, innanzitutto, nella forma del suo essere parte di una catena di generazioni. Lungi dal costituire un ostacolo ad una effettiva educazione e ad un pieno sviluppo della ragione – come il pensiero illuministico ci ha per troppo tempo spinto a pensare –, la tradizione offre all’educando un imprescindibile termine di paragone da spendere nel suo confronto con il reale. Essa è il terreno fertile da cui germoglia l’ipotesi vitale di significato da verificare nel corso della vita e senza la quale una vera e propria conoscenza non è tecnicamente possibile. In quanto luogo di pratica e di esperienza, secondo la felice definizione di Blondel[11], la tradizione favorisce, come diceva Giovanni Paolo II, la scoperta della “genealogia” della persona che non è mai riducibile alla sua pura “biologia”. Garantisce quell’esperienza compiuta di paternità-figliolanza senza la quale non si dà la persona con la sua capacità di esperienza e di cultura[12].
Avendo così indirettamente individuato l’insostituibile apporto della libertà umana, sempre storicamente situata, alla paideia, possiamo legittimamente accennare al fattore “critico” insito in ogni proposta educativa. Mi riferisco alla categoria di rischio[13].
Il rischio non è irrazionalità, ma affiora nella sempre possibile scissione tra il giudizio della ragione e l’atto di volontà. Nell’incontro del suo io tutto intero con tutta la realtà l’educando fa l’esperienza del rischio perché, pur percependo l’intrinseca positività della realtà stessa, può rimanere bloccato nell’adesione ad essa fino ad abbandonarsi alla tentazione dello scetticismo. In questa prospettiva il rischio non è risparmiato neanche all’educatore che, nel comunicare all’educando l’ipotesi interpretativa che egli ritiene più appropriata per spiegare il reale, è chiamato ad auto-esporsi e quindi a rischiarsi. Per questa ragione l’educazione ha una natura eminentemente dialogica. Domanda sempre uno scambio tra l’io (l’educatore che propone e si propone) e il tu (l’educando che viene introdotto alla realtà totale). E questo scambio avviene, costitutivamente, all’interno della trama di relazioni in cui educatore ed educando sono sempre inseriti. Questo dialogo si realizza solo a condizione che, nel continuo e serrato paragone con il reale, venga messa in gioco la libertà di entrambi. Esso mostra inoltre la natura “drammatica” del compito dell’educatore, il quale, spesso tentato di risparmiare all’educando il negativo, può, anche senza volerlo, giungere fino ad impedirgli di essere irriducibilmente altro e quindi integralmente libero[14].
Il rischio (educativo) del possesso può essere battuto in breccia solo da quella che, insieme alla libertà, rappresenta un’altra dimensione costitutiva di ogni impresa educativa: l’amore. L’amore offerto all’educando, e che a sua volta muove l’educando ad un appassionato confronto con il mondo che lo circonda, ha due volti. Quello dell’educatore, che offre e comunica tutto se stesso nel testimoniare la verità come quell’ipotesi vitale di interpretazione della realtà che egli ha fatto propria; quello della realtà stessa, che, attestandosi come dono, è ultimamente segno del Mistero che si rivela a tutti gli uomini. E la dinamica con cui la realtà si racconta non si esaurisce mai perché, alla fine, esprime l’amore con cui l’amato (l’uomo) e l’amante (il Mistero) incessantemente si interrogano.
Quando l’ipotesi unitaria e vitale di interpretazione della realtà è l’evento di Gesù Cristo che si comunica nella traditio eucaristica della Chiesa, allora essa appare inscindibilmente connessa con la virtù cristiana della carità. San Giovanni Bosco ha ben descritto quale sia il caposaldo dell’educazione: «Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore… Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne mette in mano la chiave»[15]. Queste parole sono nutrite ultimamente dalle relazioni intratrinitarie tra Padre e Figlio e Spirito che, per le missioni del Figlio e dello Spirito, assumono il volto della singolare esperienza del rapporto di Gesù col Padre (cfr Vangelo di Giovanni) e con lo Spirito. Esse dicono dell’impossibilità di essere padri ed educatori se prima non ci si riconosce figli. Non dico: se non si riconosce di “essere stati figli”, bensì proprio di “essere figli”, qui ed ora, di quel Padre che è fonte di ogni paternità e che in Cristo «ci ha scelti prima della creazione del mondo […], predestinandoci a essere suoi figli adottivi»[16].
3. Paideia e università
Indicati i tratti di una paideia come introduzione di tutta la persona alla realtà totale, possiamo ora domandarci in che misura l’università sia in grado di rispondere a questo compito. A partire dall’epoca moderna l’università in ambito euroatlantico pratica di fatto l’esclusione dei saperi connessi con tutte le questioni ultime, soprattutto se lette nella prospettiva della rivelazione cristiana, perché sono ritenute estranee ad una rigorosa conoscenza scientifica[17]. «L’umanità preferirà rinunciare ad ogni domanda filosofica piuttosto che accettare una filosofia che trova la sua ultima risposta nella rivelazione di Cristo»[18].
Questa pesante emarginazione non si perita più, come un tempo, di mettere in discussione la legittimità delle questioni e delle domande circa le cose ultime (Comte). Piuttosto nega la possibilità che la teologia, e anche la filosofia intesa in senso pieno, possano rispondervi adeguatamente. Oggi sarebbe deputata a farlo, al loro posto, la tecnoscienza, la quale viene da più parti considerata l’unica depositaria della verità, sempre falsificabile (Popper), circa l’uomo e i fattori fondamentali della sua esistenza: l’amore, la nascita, la morte. È evidente come entrino qui in gioco radicali cambiamenti che hanno una stretta connessione con la questione educativa[19].
In questo quadro di rapida e affannosa transizione, come può la formazione universitaria essere pedagogicamente appropriata e quindi non venir meno alla vocazione stessa della uni-versitas, cioè di luogo in cui i saperi vengono ricondotti ad un unico principio sintetico di spiegazione della realtà? In passato questo ruolo di sintesi era toccato alla teologia, il cui metodo e i cui risultati facevano da orizzonte per tutte le altre scienze. Nell’epoca moderna, declinato il ruolo della teologia, ridotta al rango di una disciplina fra le altre e in molte parti espulsa dall’università, non decade tuttavia l’istanza di unificazione del reale.
Ma oggi il principio che assicuri l’universitas come comunità di ricerca non è più ricavato dall’accordo su un nucleo centrale di questioni ultime (sempre allo stesso tempo filosofiche e religiose), ma poggia sul consenso prodottosi intorno alle procedure di ricerca. La scientificità che accomuna le discipline universitarie non attiene più direttamente all’oggetto della conoscenza, cioè alla verità, ma solo alla metodologia di formulazione del discorso scientifico stesso. Inevitabile conseguenza di questo approccio è che l’università cessa di essere luogo di ricerca e verifica di un’ipotesi veritativa ultima, e perciò di reale paideia, per ridursi unicamente a luogo di trasmissione di competenze che, pur non rinunciando a dire “qualcosa” di sempre provvisorio circa la verità (pensiamo al bios, o alla “formazione dell’universo”) possiede solo un’utilità strumentale. Ci troviamo qui di fronte ad un concetto di ragione estremamente limitato, che non tiene conto delle articolate modalità in cui si esercita il logos umano. Possiamo infatti individuare, sulla scorta di quanto già sosteneva Aristotele, almeno cinque forme, differenziate e irriducibili, di razionalità: teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica)[20]. Tutte queste dimensioni dovrebbero essere armonicamente ed unitariamente coltivate dall’università.
Certo, nell’attuale panorama educativo non si può non tenere nella dovuta considerazione il fatto che il sistema universitario è per sua natura basato su una complessa articolazione di specifici programmi curriculari e di discipline differenziate. Può pertanto apparire irrealistico perseguire in tempi ragionevoli l’individuazione di nuove basi per l’unità dell’oggetto del sapere, tanto più che va mantenuto il legittimo, e anzi necessario, rispetto per lo statuto particolare delle singole discipline secondo il principio popperiano di demarcazione[21]. Tuttavia quella del superamento della frammentarietà dell’oggetto del sapere è un’istanza oggi più sentita che sta conducendo cultori di molte materie a non limitarsi alla pura interdisciplinarietà.
A maggior ragione però, di fronte a una tale situazione, una adeguata educazione universitaria non potrà rinunciare da subito alla cura dell’unità del soggetto del sapere.
Ma su cosa fondare oggi l’unità del soggetto? Saggezza chiede che, senza confondere il nuovo con l’inedito, anche nel tempo presente si riconosca che essa si realizza a partire dall’assunzione di un’ipotesi esplicativa vitale del reale, che consenta di percepirlo nella sua totalità e di goderne. Non si tratta di un puro esercizio intellettualistico, ma di un’esigenza che si impone ad ogni ricercatore e ad ogni docente e studente che sia lealmente impegnato con la sua materia di ricerca, di insegnamento e di studio. Ogni disciplina, infatti, contiene al fondo una domanda di senso e di significato e perciò prima o poi suscita le irrinunciabili questioni che da sempre agitano il cuore dell’uomo: Chi sono io? Da dove vengo? Quale destino mi aspetta? Chi alla fine mi assicura amandomi definitivamente (oltre la morte stessa)?
Le possibilità che uno sguardo unitario sul reale è in grado di dischiudere ad un intelletto commosso sono ben descritte dalle parole assai attuali del Cardinal Newman: «Non c’è vero allargamento dello spirito se non quando vi è la possibilità di considerare una molteplicità di oggetti da un solo punto di vista e come un tutto; di accordare a ciascuno il suo vero posto in un sistema universale, di comprendere il valore rispettivo di ciascuno e di stabilire i suoi rapporti di differenza nei confronti degli altri… L’intelletto che possiede questa illuminazione autentica non considera mai una porzione dell’immenso oggetto del sapere, senza tener presente che essa ne è solo una piccola parte e senza fare i raccordi e stabilire le relazioni che sono necessarie. Esso fa in modo che ogni dato certo conduca a tutti gli altri. Cerca di comunicare ad ogni parte un riflesso del tutto, a tal punto che questo tutto diviene nel pensiero come una forma che si insinua e si inserisce all’interno delle parti che lo costituiscono e dona a ciascuna il suo significato ben definito»[22].
Tale punto di vista unitario è offerto secondo il cristianesimo dall’evento di Gesù Cristo, Verbo incarnato e immagine del Dio invisibile, e dalla Sua “pretesa” di svelare, con la sua passione, morte e risurrezione, l’enigma che l’uomo rappresenta per se stesso[23] senza per questo pre-decidere il dramma costitutivo di ogni singolo. Questa “ipotesi” non soffoca il libero esercizio della ragione, anzi ne esalta le facoltà critiche urgendole ad un confronto a 360° con la realtà. La proposta cristiana, infatti, presa nella sua oggettiva integralità, non è un salto nel buio. L’uomo può, al contrario, verificarne tutto lo spessore veritativo nel paragone con le dimensioni della sua esperienza elementare (lavoro, affetti, riposo), e con le irriducibili polarità che attraversano l’unità del proprio io (unità duale propria di ogni essere creato, contingente): anima-corpo, uomo-donna, individuo-comunità. I medievali parlavano a questo proposito di cum-venientia, nel senso etimologico di cum-venire: corrispondere all’essenza più profonda, alle esigenze costitutive dell’io. Non ci riferiamo qui pertanto ad una convenienza utilitaristica. Affermiamo invece quel livello ultimo della verità che muove la persona a scoprire la positività intrinseca del reale, il suo valore[24]. E nel conoscere, integralmente inteso, l’uomo si ri-conosce. Questa prospettiva che afferma l’attualità della paideia per un lavoro universitario, se rettamente assunta perché efficacemente inculturata, è del tutto compatibile con i più avanzati saperi delle scienze quando siano rigorosamente praticati. Diceva Don Bosco nel suo scritto sul sistema preventivo: «Questo sistema si appoggia tutto sulla ragione, religione ed amorevolezza». Questo sguardo viene esaltato dalla caratteristica ideale dell’università come communitas docentium et studentium. Certo, il principio unitario di interpretazione del reale deve vivere nella persona ed esprimersi nella comunicazione tra docente e discente. Ma esso raggiunge la massima fecondità se espresso nella incessante e reciproca testimonianza che deve circolare fra tutto il corpo docente e tutti gli studenti. Quando la comunicazione appassionata dei primi trova nei secondi non solo degli uditori attenti, ma dei soggetti a loro volta impegnati in una inesausta ricerca della verità, l’università cessa di essere luogo di passaggio finalizzato all’ottenimento di un diploma e realizza la sua vocazione più autentica.
4. Per una università cristianamente orientata
Quanto abbiamo detto assume un valore particolare in un’istituzione che, come la vostra, insieme alla teologia, alla filosofia, al diritto canonico è impegnata ad offrire agli studenti una conoscenza approfondita in ambiti di studio (la pedagogia, la comunicazione) i cui metodi e i cui contenuti si fanno sempre più tecnicamente sofisticati. La pedagogia è esposta al rischio della rimozione dell’esperienza umana elementare; la comunicazione viene spesso concepita come “creatrice” di verità, finendo per diventare strumento di interessi particolari in competizione tra loro.
Compito dell’università, della vostra università, è quello di consentire agli studenti di giungere fino alla realizzazione della loro umanità. Ciò impone di perseguire la paideia attraverso la ricerca, l’insegnamento e lo studio rigoroso delle discipline qui coltivate. E questo mediante il ricorso ad uno sguardo critico che non sia sterile obiezione, ma autentica capacità di discernimento di ciò che è vero, uno, buono e bello. «Vagliate ogni cosa, trattenete ciò che è buono» (1Ts 5,21).
In una parola l’università è tale se sospinge la mente, il cuore e l’azione dei soggetti che la abitano nell’affascinante avventura (ad-ventura) di scoprire il ragionevole dono della verità.