S.Em Rev.ma cardinale Angelo Scola

EDUCAZIONE E COLLABORAZIONE PER AFFRONTARE LA CRISI – Viene pubblicata qui di seguito l’intervista al Patriarca a cura di Roberto Papetti, direttore del Gazzettino, pubblicata domenica 13 giugno.

“Il Veneto è ancora troppo poco Regione”. E deve diventarlo. Ma per far questo è necessario superare un concetto sbagliato di policentrismo che nella realtà è “nemico dell’unità della Regione”, alimenta solo divisioni e genera debolezze. E basta anche con gli scontri e i litigi “perchè la gente è stanca e non capisce: la politica non è e non può diventare un ring”. I toni sono, al solito, pacati ma fermi. Le parole meditate e mai casuali. Ma il Patriarca di Venezia Angelo Scola, come suo costume, non si tira indietro e affronta, in questa lunga conversazione con il Gazzettino, molti dei temi chiave del Nordest: quello di oggi, ma soprattutto quello di domani. Lanciando anche una proposta: una grande alleanza per l’educazione che superi il concetto “vecchio e inadeguato” di patto sociale e raccolga le migliori energie del Veneto “perchè”, dice Scola, “il capitale umano è diventato insostituibile e non si improvvisa: non ci sarà vera innovazione senza educazione”.

Patriarca, diranno che fa politica…

“Io sono un vescovo e il vescovo attraverso l’azione pastorale quotidiana cerca di aiutare la relazione della famiglia umana con Dio, attraverso i sacramenti, la parola di Dio, la preghiera e la condivisione; ma poiché il nostro è un Dio incarnato, inevitabilmente ha a cuore la storia dell’uomo, le sue vicende concrete. Per questo come Patriarca faccio anche interventi pubblici su vari temi, mi occupo di ricerca ed educazione attraverso il Marcianum o dei bisogni degli emarginati. Sono cose apparentemente molto diverse tra loro, ma con un filo unitario che le lega ed è la mia preoccupazione, come vescovo, per il bene intero della gente. E’ un’azione che ha che fare con l’amore di Dio verso la famiglia umana che Gesù ci ha testimoniato. Non c’è altro. “Oggi vengo a casa tua”: in queste parole di Gesù ad un uomo di mondo come Zaccheo è detto in maniera semplice ed inequivocabile il senso della Visita pastorale in atto in tutto il Patriarcato dal 2005. E la gente, come Zaccheo, risponde con prontezza ed entusiasmo. Lo documenta l’accoglienza che mi riserva ricevendomi a casa sua. Non solo nelle chiese, ma anche nei luoghi della vita quotidiana – del lavoro e dello studio, del riposo, della cura, dell’impegno sociale, civile e politico … Io sto imparando moltissimo da questa esperienza. E la mia fede ne è confermata e rafforzata».

Durante la sua attività pastorale lei incontra molte persone. Che Veneto vede: impaurito da questa lunga e difficile crisi? Ansioso? O ancora fiducioso?

“Non vedo un Veneto rassegnato. Ma dal settembre dello scorso anno avverto che la crisi sta mordendo sulla carne della gente. Devo però dire che non incontro normalmente persone disperate. Anche ieri mattina nelle cosiddette “udienze libere”, ho visto una trentina di persone. Molte di loro vengono da me cariche di bisogni e di problemi, ma in tutti ho visto grande dignità. Un dato comunque è certo: questa crisi pesa in maniera profonda e dolorosa sulle fasce più deboli della popolazione e questo non sarà mai detto a sufficienza. Non voglio ergermi a giudice di nessuno, ma il sistema delle eguaglianze effettive è messo a dura prova anche nel nostro Paese. Credo che tutti, e mi rivolgo in particolare agli uomini del potere economico e politico della nostra Regione, dobbiamo fare di più perché questa situazione sia corretta in forme convincenti e effettive”.

A proposito uomini di potere: il Veneto e Venezia stanno vivendo una fase di cambiamenti politici importanti. Si è chiuso un ciclo in regione e in Comune, se ne apre un altro. Con nuovi protagonisti. Che ne pensa?

“Per me vale un principio di fondo, che è già chiaro in San Paolo: secondo l’Apostolo un’autorità legittimamente scelta viene in ultima analisi da Dio. Se non agisce contro le leggi di Dio, merita da parte della Chiesa un atteggiamento positivo di rispetto e credito, il che ovviamente non impedisce nel modo più assoluto la critica quando è necessaria. Io ho sempre cercato di praticare questo atteggiamento: come ho già detto, il mio giudizio sull’azione delle autorità istituzionali in questi anni a Venezia e in Veneto è stato positivo. I “nuovi” si trovano di fronte un’eredità impegnativa da portare e io innanzitutto guardo a loro con atteggiamento di simpatia. Dobbiamo dare fiducia a questi uomini nuovi e alle squadre che loro hanno costruito. Questo è un momento di grande prova. In particolare ci sono due direzioni in cui credo sarebbe giusto impegnarsi…”

Quali?

“Sarebbe importante se tutte le istituzioni venete, gli imprenditori, i sindacati e anche le parrocchie e la diocesi, facessero una forte alleanza educativa. Si parla forse di cultura, ma poco di educazione. Ma non ci sarà nessuna innovazione se non investiremo sulle risorse umane, fin dalla scuola materna. Il capitale umano è diventato assolutamente insostituibile e non si improvvisa. L’idea di patto sociale mi sembra un po’ vecchia perchè è tesa solo al contenimento delle contraddizioni. Noi invece abbiamo oggi bisogno di creazione, di innovazione nel senso completo della parola: non basta la scoperta del nuovo brevetto, è necessario un nuovo modo di essere e di relazionarsi. Esiste una società civile ricchissima come forse in nessuna altra parte del mondo, va valorizzata. E credo sia molto importante che, pur nella gravità della crisi, chi ha la responsabilità del governo sappia pensare a progetti innovativi che si prendano cura degli uomini e delle comunità intermedie”

E il secondo fronte?

“Il Veneto è ancora poco Regione. Se faccio un confronto con la Lombardia in cui sono nato, vedo che su questo fronte siamo in netto ritardo e questo ci penalizza non solo a livello nazionale ma anche internazionale. Il policentrismo non può essere nemico dell’unità della Regione”.

A cosa pensa in particolare?

“A molte cose. Per esempio, questo continuo prendere le distanze da Venezia mi sembra una miopia. Venezia non ha le potenzialità industriali economiche di Padova, di Verona, di Treviso o di Vicenza, ma Venezia è il segno mondiale del Veneto nel mondo, il Veneto deve sentirsi Venezia, ma Venezia non esiste senza il Veneto. Ci deve essere un pluralismo vissuto nell’unità che arricchisce, non una logica di contrapposizione. Mi auguro che le nuove autorità regionali in serio colloquio con le province, con i comuni e con tutte le altre istituzioni, avviino anche qui un lavoro di progetto comune: vediamo quali sono le eccellenze di una città rispetto ad un’altra e lavoriamo in sinergia.. Non dico che non ci siano sforzi in questa direzione, per esempio mi sembra significativa l’alleanza che sta nascendo tra le Università. Può essere un segno, ma non basta. Serve un ripensamento del ruolo della politica anche nella regione. Serve, forse, anche meno dialettica, pur nella positività della tensione critica, e più passione per la vita buona e le pratiche virtuose”

Insomma: meno scontri, meno litigi e conflitti.

“Sì la gente di questo si lamenta, non capisce: la politica non è un ring. Se si riduce a questo è una tragedia per il Paese”

Il Veneto e il Nordest non soffrono anche di una carenza di leader?

“Questa è una Regione in cui bisogna che gli uomini fra i 20 e i 50 anni prendano più in mano la società, anche le comunità cristiane. Ci sono molti leader potenziali, ma – tranne qualche eccezione – i più ancora non si vedono. Fanno fatica a mettersi in gioco, rimangono rintanati. Dovrebbero prendersi più spazio e forse bisognerebbe lasciargliene di più”.

Lei propone al Veneto e alla sua classe dirigente una grande alleanza per l’educazione. Ma oggi si parla soprattutto di tagli alla scuola, alla cultura. Difficile innovare in questa situazione.

“Secondo me la vera sofferenza della nostra scuola e della nostra Università è la mancanza di un’effettiva libertà di educazione nel paese. Il problema è che fintanto che il mito della scuola unica di Stato non viene progressivamente ridimensionato, una riforma sostanziale è molto difficile. Sia chiaro: il mio non è un modo di propugnare il finanziamento pubblico delle scuole cattoliche, parlo di una concezione diversa della scuola. Io utilizzo per esprimerla la formula che lo Stato deve governare la scuola, ma non deve gestirla e deve consentire alla società civile, governandola, là dove esistono soggetti capaci, di fare scuola. Capisco benissimo che una riforma di questo genere non si fa in due anni e forse nemmeno in dieci, però bisogna continuare con alacrità sulla strada di una effettiva autonomia della scuola. Senza questa chiarezza di prospettiva non si va lontani. Una scuola che finisce per essere gestita da Roma attraverso circolari che devono valere per tutti, da Mazara del Vallo fino a Bolzano, è ovvio che subisca il rischio di pesantezze anche economiche. Detto questo, mortificare finanziariamente la scuola, l’Università, e più generale la cultura sarebbe una miopia e quindi è necessario che gli interventi di cui si parla siano mirati ed obiettivi e che ci sia un ascolto profondo della realtà civile”.

In questa momento si parla molto di sacrifici. E’ una parola che ha ancora un senso?

“Dopo la caduta dei muri, noi siamo davanti a tempi sconosciuti, a territori inesplorati, determinati da ciò che sta avvenendo a livello delle scoperte biogenetiche, delle neuroscienze, del mescolamento dei popoli, della civiltà delle reti. L’uomo del 2000 è nella posizione del bambino che è tutto teso alla scoperta del nuovo e nello stesso tempo estremamente fragile. Il nostro è un tempo in cui molte parole fondamentali devono essere ripensate, ridefinite, rivissute. Tra queste c’è anche la parola sacrificio. Il problema è la ragione per cui mi dispongo a fare un sacrificio.

E qui emerge la grande domanda: nel vivere a chi rispondi? Rispondi solo a te stesso? A qualche rapporto decisivo, importante, come quello con la moglie o il marito? O rispondi a Uno che in ultima analisi ti assicura e ti dà garanzia? Che ne è del desiderio di Dio che volente o no ti porti dentro? Alla fine la questione è lì. L’uomo del terzo millennio deve ripensare le grandi parole della vita. Cos’è l’amore, cos’è il sacrificio, cos’è il lavoro, cos’è la dignità umana, cosa sono i diritti? A che serve il denaro, a che serve la fama? Perché il potere? Tutto questo ha bisogno di essere riformulato, in un certo senso riscritto. Ma questo chiede di far spazio, già su questa terra, al futuro di Dio. E’ ciò che rende affascinante la nostra epoca. Che è un’epoca di travaglio”

In Italia c’è un dibattito molte acceso sui cosiddetti costi della politica. Qualcosa, seppur a fatica, si muove. Non è troppo poco?

“Penso che ci sia un soprassalto positivo di coscienza e di consapevolezza. Chi è chiamato a ricoprire una carica istituzionale, deve mettersi in gioco per primo. La scelta, per esempio, della nostra Regione o dei nostri Comuni di ridurre i compensi potrà avere in una prima fase un valore prevalentemente simbolico, ma mi auguro generi un effetto cascata e produca qualcosa di importante anche dal punto economico. Oltretutto quello del simbolo è un linguaggio decisivo per ogni vita associata. Basta pensare al grande simbolo della messa che tiene insieme i cristiani da duemila anni”.

Un’altra parola ricorrente di questi tempi è: federalismo. Cos’è per lei: un rischio? Un’opportunità? Una sfida?

“Lo definirei uno strumento adeguato a questa fase di globalizzazione, purché porti a compimento il valore dell’istituzione delle Regioni e non sia vissuto in alternativa all’unità nazionale. Nel mondo reso un villaggio globale c’è più che mai bisogno di capillarità e il federalismo la può favorire. In proposito la società civile potrebbe imparare molto guardando a come la storia millenaria della Chiesa ha saputo mettere insieme universalità e capillarità: se uno la domenica entra in una chiesa a Venezia piuttosto che a New York, vive la stessa messa, ma è capillarmente inserito in una ben individuata trama di rapporti. Se il federalismo è visto così, cioè come il polo della capillarità corrispondente a quello dell’unità nazionale, allora lo reputo uno strumento estremamente utile. Ma non bisogna imboccare strade ideologiche, bensì fare in modo che sia un mezzo decisivo di valorizzazione del territorio inteso come luogo della comunità degli uomini e non soltanto come realtà geografica”.