Comitato Scientifico Internazionale Oasis 2010

COMITATO SCIENTIFICO OASIS 2010 – Viene pubblicato qui di seguito un estratto dell’intervento di apertura del Comitato scientifico della Fondazione Internazionale Oasis pronunciato dal Patriarca e pubblicato dal quotidiano la Repubblica in data 19 giugno:

Beirut Libano, 21-22 giugno 2010

Angelo Scola

Raramente come in quest’ultimo anno, e direi soprattutto in quest’ultimo mese, abbiamo avuto il timore di essere giunti molto vicini a un punto di non-ritorno. Lo ha detto con forza il Santo Padre a Cipro, paventando per il Medio Oriente un «bagno di sangue ancora più grande» nel caso in cui non si concretizzi rapidamente «uno sforzo internazionale urgente e concertato al fine di risolvere le tensioni che continuano […], specie in Terra Santa»1. Un eventuale conflitto avrebbe conseguenze disastrose, prima di tutto in termini di vite umane, ma anche per i suoi effetti destabilizzanti, ben oltre i confini degli Stati eventualmente coinvolti.

Dinanzi a una sfida di tale portata, come pure di fronte alle enormi questioni che l’inedito mescolarsi di popoli solleva in ogni parte del mondo, qual è l’intuizione originaria da cui siamo partiti? In estrema sintesi, la necessità di dare vita ad un luogo di comunione. La Fondazione Oasis e i suoi vari strumenti (dalla rivista alla newsletter, agli eventi, alle pubblicazioni, al sito) esistono per questo. La parola comunione è diventata di uso assai comune. E, in quanto tale, rischia il logoramento. Tuttavia essa è la stoffa dell’esistenza cristiana, per questo la comunione tra di noi è l’imprescindibile compito che ancora ci sta davanti.

Ma per l’inarrestabile dinamica interna, propria dell’amore oggettivo, la comunione si apre a coinvolgere, a cerchi concentrici, in forza delle dovute distinzioni, tutti gli uomini, e per Oasis in modo speciale i musulmani. Ancora a Cipro Benedetto XVI li ha chiamati “fratelli”, soggiungendo, quasi a precisare che non si trattava per lui di un semplice modo di dire, «che sono fratelli nonostante la diversità»2.

La dinamica della communio cristiana, per la sua stessa logica interna, tende, nella misura in cui trova accoglienza, a dilatarsi anche ad extra. In che modo? Attraverso la testimonianza, intesa nel suo senso più pieno. Testimonianza quindi non solo come buon esempio, ma più propriamente come metodo e comunicazione della verità. A questo proposito Mons. Luigi Padovese ci ha lasciato, appena qualche mese fa a Venezia, una testimonianza particolare. Disse tra l’altro: «Se accettassimo come cristiani di non comparire, restando una presenza insignificante nel tessuto del paese, non ci sarebbero difficoltà, ma stiamo rendendoci conto che, come sta avvenendo in Palestina, in Libano e soprattutto in Iraq, è una strada senza ritorno che non fa giustizia alla storia cristiana di questi paesi nei quali il cristianesimo è nato e fiorito, e che non farebbe giustizia alle migliaia di martiri che in queste terre ci hanno lasciato in eredità la testimonianza del loro sangue» (11 ottobre 2009).

Ma la questione dell’autentica testimonianza mette in campo un altro fondamentale: l’educazione.

L’educazione, in prima approssimazione, è proprio quel processo fatto anzitutto di buone relazioni e di pratiche virtuose, di trasmissione (traditio) di un’interpretazione complessiva della realtà, offerto alla verifica della libertà dell’educando.

Eppure l’impresa educativa è in affanno un po’ a tutte le latitudini. Lo è certamente in Occidente, dove ormai si parla apertamente di “emergenza educativa” e dove non di rado sembra smarrita l’idea stessa di educazione, ma lo è anche nel resto del globo.

Per educare occorre un’idea di uomo e soprattutto una pratica dell’humanum. Non un’idea astratta quindi, ma quella inevitabilmente legata all’esperienza integrale ed elementare di ogni singolo. Redemptor hominis afferma con convinzione: «Non si tratta dell’uomo astratto, ma reale, dell’uomo concreto, storico»3. Purtroppo però l’idea di uomo implicita in buona parte della prassi educativa corrente, certamente in Occidente, ma anche a livello globale, è sempre più quella di un soggetto scisso: da un lato starebbe l’oggettivismo razionale e, dall’altro, come complementare, il soggettivismo emotivo. Solo la prima sfera sarebbe di pertinenza dell’educazione, che consisterebbe pertanto in una corretta trasmissione di informazioni, tecniche, abilità e competenze. Educazione in questa prospettiva diventerebbe dunque sinonimo di addestramento all’uso di una ragione per giunta ridotta alla sua componente strumentale. Fuori dal campo della ragione, ed in ultima analisi dell’educazione, giacerebbe invece il mondo degli affetti, esclusivo dominio di un soggetto che si costruisce e si inventa in un’autonomia tendenzialmente autoreferenziale e pericolosamente fragile. Inoltre, si deve almeno accennare al fatto che questa concezione dualista dell’umano sta sempre più cedendo il passo a un positivismo assoluto. Quello che, soprattutto in forza delle strabilianti scoperte delle neuroscienze e delle bioconvergenze, riconduce tutte le espressioni della sfera emotiva, affettiva e morale a pure attività cerebrali che in prospettiva potrebbero, secondo taluni, diventare addirittura artificiali. Siamo così di fronte a una concezione di ragione limitata alla sfera empirico strumentale, che non tiene conto delle articolate modalità in cui si esercita il logos umano4 e che devono stare alla base di un’idea adeguata di educazione nel senso di “paideia”.

La nozione di paideia ha, per il nostro incontro odierno di cristiani e musulmani, il grande vantaggio di rinviarci a una delle due tradizioni che, in modalità diverse, condividiamo: l’eredità classica e più propriamente tardo-antica, nella quale cioè inizia a prendere corpo il confronto tra pensiero ellenico e messaggio biblico.

Tuttavia, per venire ai nostri tempi e mettendo a frutto le ineludibili acquisizioni del pensiero moderno e contemporaneo circa la struttura originaria, possiamo affermare che sempre ed in ogni caso «Qualcosa si dà a qualcuno». Questa formulazione non fa che ridurre all’osso la convinzione classica circa l’intelligibilità del reale e la capacità dell’uomo di ospitarlo.

Se le cose stanno così, compito dell’educatore sarà quello di introdurre l’educando a un’esperienza integrale della realtà. Egli lo guiderà a decifrarne il significato, poiché nel suo offrirsi alla mia libertà la realtà mostra di possedere già una sua unità e pertanto un logos, da scoprire5.

L’enfasi sulla capacità da parte del soggetto di ospitare il reale intelligibile rappresenta soltanto una dimensione della paideia. L’altra, altrettanto importante, è il suo chiamare in causa la libertà, anzi le libertà, di educatore e di educando sempre inserite in una trama di relazioni sociali. E qui è appropriato parlare di rischio educativo6. Infatti l’introduzione a un’ipotesi esistenziale unitaria circa il reale non avviene senza un duplice rischio. Rischio prima di tutto dell’educando, che non può chiamare “sua” alcuna verità se non la fa propria con la sua libertà, come ha visto genialmente Goethe: «Ciò che hai ereditato dai tuoi padri, fallo tuo, per poterlo possedere».

D’altro canto anche l’educatore non può esimersi da un’auto-esposizione. Non educa colui che dice “fai così” ma colui che così invita: “fai con me così”. L’educazione è una forma di carità, un atto di amore nel quale l’educatore offre tutto se stesso nella testimonianza di quella verità che egli già vive come adeguata chiave interpretativa del reale.

L’educazione è pertanto in ultima analisi generazione, un’esperienza di paternità e di figliolanza.

Si ripete di frequente, e non senza ragione, che il migliore antidoto al fondamentalismo e alla violenza è l’educazione. Occorre però aggiungere: non qualsiasi educazione, ma un’educazione che sappia tenere insieme verità e libertà. E quest’ultima nella sua dimensione personale e in quella comunitaria. Solo un’adeguata antropologia, fondata sull’io-in-relazione con Dio, con gli altri e con se stessi, permetterà quindi di evitare una deriva violenta, senza cedere a un insoddisfacente agnosticismo.

È a questo livello, a mio avviso, che si giocherà la partita decisiva per le religioni.