Continua la collaborazione del cardinale Angelo Scola, con il «Messaggero di sant’Antonio». Ogni mese si rivolge ai lettori della rivista parlando di vita buona, riallacciandosi all’omonimo libro-intervista con il giornalista Aldo Cazzullo.
Da anni è in atto un processo di meticciato di civiltà, che sta trasformando, non senza difficoltà, la nostra società. La Chiesa accompagna tale processo favorendo l’accoglienza totale dell’altro in quanto persona. Compito diverso quello dello Stato, chiamato a governare la società in vista del bene comune.
di Angelo Scola
Quella che storicamente è sempre stata la vocazione di Milano, essere un crocevia di popoli e di culture – l’etimologia più probabile di Mediolanum è, infatti, terra di mezzo –, oggi si sta rapidamente estendendo anche alle altre città d’Italia. La nostra – dicevamo la volta scorsa – è sempre più una società plurale in cui convivono etnie, religioni, culture e mondovisioni diverse. «Meticciato di civiltà » è l’espressione che mi è sembrata la meno inadeguata per definire il processo che stiamo vivendo. Un dato di fatto con cui tutti dobbiamo fare i conti, non un progetto studiato a tavolino. La storia avanza, infatti, per processi che non ci chiedono il permesso di accadere. E la nostra fede ci insegna che il cammino della storia, spesso segnata dal male, non è abbandonato in balìa di un caso maligno e capriccioso, ma saldamente tenuto dalle mani di un Padre, secondo il suo disegno – misterioso ma buono –, fino al definitivo compimento. Certo non si dà mai «meticciato» senza traumi, in modo indolore. Ogni incontro tra popoli, etnie, tradizioni religiose e culturali diverse porta con sé fatiche, contraddizioni e sofferenze.
La stessa parola in-contro, fatta da due preposizioni di segno opposto, racchiude in sé una drammatica tensione tra avvicinamento e allontanamento, tra accoglienza e rifiuto. La storia dei nostri emigrati del primo Novecento, con il pesante carico di dolore ma anche di esaltanti novità che ha comportato, è lì a documentarcelo. Ma la storia della Chiesa, fin dal suo inizio, testimonia che l’unità che Cristo è venuto a instaurare è più forte di ogni divisione. «Non c’è più giudeo né greco – scrive Paolo nella Lettera ai Galati – ma tutti noi siamo uno in Cristo Signore» (Gal 3,28). In forza della vita nuova che è entrata nella storia con la risurrezione del Signore, le diversità non devono più essere messe tra parentesi o eliminate, ma si rivelano come una risorsa per la costruzione del bene comune, di quella civiltà dell’amore di cui il Beato Giovanni Paolo II è stato instancabile annunciatore in tutto il mondo. Nella mia esperienza di pastore, a Venezia prima e ora a Milano, ho potuto verificare la straordinaria fecondità di questa elementare verità della nostra fede. I luoghi e le opere da essa generati (scuole, oratori, iniziative nate dall’inesauribile inventiva della carità, ma anche famiglie cristiane, comunità religiose…) sono bozzetti di società nuova, in cui si impara ad amare l’altro per se stesso. Gratuitamente, senza volerlo plasmare a nostra immagine e somiglianza, per il semplice motivo che Dio lo ha voluto e se ne prende cura, come fa con ciascuno di noi. Da qui ha origine la curiosità di conoscere l’altro, con la ricchezza della sua umanità e della sua storia, l’instancabile ricerca del dialogo, la condivisione paziente e tenace della vita, nel dono di sé.
Ho ancora negli occhi le toccanti immagini del film Uomini di Dio sul sacrificio dei sette monaci di Thibirine. Sapientemente il regista sceglie di mostrare, come paradigma della loro testimonianza, non tanto la scena del sequestro che li condurrà all’effusione del sangue, ma le scene della vita quotidiana, ritmata da preghiera e lavoro – e, soprattutto, totalmente spesa nel dono di sé a Dio e ai fratelli – dai monaci convocati nella stessa compagnia vocazionale e solidali con gli uomini e le donne del villaggio musulmano con cui condividevano la vita. Quello che ho cercato di descrivere è il compito, irrinunciabile, della comunità cristiana davanti al frangente storico fortemente segnato dal fenomeno dell’immigrazione in cui siamo chiamati a vivere. Sarebbe ingenuo, e ultimamente sbagliato, pensare che lo Stato abbia lo stesso compito. Lo Stato, assecondando i criteri della sussidiarietà e della solidarietà di cui abbiamo già parlato, ha un compito diverso e complementare. Quello di governare, ordinandola, la vita della società civile per favorire il bene comune.