Qui di seguito il testo pronunciato dal Patriarca il 24 gennaio, a Firenze, in occasione di un incontro per sacerdoti, religiosi e diaconi sul tema “Cristo pienezza dell’umano nella vita del presbitero”

+ Card. Angelo Scola
Patriarca di Venezia

1. Introduzione. La vita del presbitero: un’esistenza in Cristo

S. Messa del Crisma

«Cristo pienezza dell’umano»: la prima parte del titolo scelto per questo incontro entra senza preamboli nel nucleo costitutivo dell’esperienza cristiana. Poiché è merito innegabile del Concilio Vaticano II l’aver offerto una acuta formulazione sintetica di questo assunto antropologico centrale per la nostra fede, vale la pena di citare, senza risparmio, il celeberrimo passaggio di Gaudium et Spes 22: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5,14) e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice. Egli è “l’immagine dell’invisibile Iddio” (Col 1,15) è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime. Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo».

Cosa significa esattamente che Gesù Cristo è la pienezza, cioè la forma compiuta dell’umano e soprattutto in che modo Egli ci rende partecipi di questa Sua umanità perfetta? Per rispondere a questa domanda occorre soffermarsi a riflettere su quella che in buona teologia si definisce la Sua “singolarità ”. Gesù noni è solo un uomo singolare, come ognuno di noi, ma lo è soprattutto perché la sua umanità è l’umanità del Figlio di Dio. Ciò non conduce solo a ribadire il primato di Cristo come unico ed universale salvatore e redentore, ma la Sua singolarità suggerisce anche un primato di Cristo tout-court, la cui centralità è originaria, cioè non dipende dal peccato di Adamo, non può essere pensata semplicemente in termini “medicinali”: Cristo morto e risorto, il Primogenito, è anche il Capo della Creazione (origine teologica), per mezzo del quale esistono tutte le cose, e non soltanto Colui che redime l’uomo peccatore. In Lui, l’uomo è pensato, voluto e creato e non solo redento. «In Lui – afferma Giovanni Paolo II – si è rivelata in modo nuovo e più mirabile la fondamentale verità della creazione»[1]. Se, nel Suo atto predestinativo-creativo, la Trinità ha in mente Cristo come immagine perfetta dell’uomo, allora noi siamo creati in Cristo, siamo figli nel Figlio. Pertanto Cristo, «immagine dell’invisibile Iddio», è il “modello” proposto ad ogni uomo per il compimento della propria vita. La parola modello va qui compresa senza equivoci. Cristo non va inteso come estraneo all’uomo, così che questi debba innanzitutto sforzarsi di imitarLo rischiando magari di ritrovarsi frustrato nella sua costitutiva fragilità. Per la grazia dello spirito l’uomo scopre «in se stesso l’appartenenza a Cristo»[2].  

Questa premessa ha una prima decisiva implicazione per la vita del presbitero: egli, come ogni cristiano, è innanzitutto un christifidelis, la cui identità è radicata nel battesimo, cioè nel dono sacramentale con cui egli viene rigenerato come figlio nel Figlio.

I lineamenti di questa identità cristiana sono stati icasticamente indicati da Benedetto XVI: «“Io, ma non più io: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della novità cristiana chiamata a trasformare il mondo»[3].

Poiché il Battesimo, da noi normalmente ricevuto da bambini, fiorisce in consapevole pratica di vita se riaccade nell’incontro personale con Cristo nella Chiesa, ogni sacerdote, come ogni cristiano, dovrebbe compiere l’esercizio (uso il termine in senso ignaziano) di rinvenire con precisione nella propria vita il quando ed il come di questo incontro personale e riandarvi continuamente per restarvi fedele.

Proprio per rimarcare la precedenza della condizione di christifidelis nella vita di ogni cristiano e, quindi, anche del presbitero, va ben messo in luce come la questione dello “stato di vita” vada collocata nel più ampio contesto della vita come vocazione[4]. In questa prospettiva il sacramento dell’Ordine, come d’altra parte quello del matrimonio, può essere opportunamente letto come il dono e la strada con cui il fedele ordinato è chiamato a vivere la comune esperienza umana (integrale ed elementare). Il riferimento alla vita in quanto tale impedisce, d’altra parte, qualsiasi riduzione della missione del presbitero alla mera erogazione di determinate competenze e servizi ad utenti che gli rimangono sostanzialmente estranei, finendo per separare la sua persona dal pulsare concreto dell’esperienza della comunità cristiana e della famiglia umana. Il richiamo alla dimensione integrale della vocazione serve così a situare la chiamata del presbitero nel suo orizzonte più adeguato. È decisivo, a tal proposito l’insegnamento del decreto Presbyterorum Ordinis al n. 3: «Così i presbiteri del Nuovo Testamento, in forza della propria chiamata e della propria ordinazione, sono in un certo modo “segregati” in seno al popolo di Dio: ma non per rimanere separati da questo stesso popolo o da qualsiasi uomo, bensì per consacrarsi interamente all’opera per la quale li ha assunti il Signore».

Se l’orientamento della vita del presbitero è essenzialmente assicurato dalla sua identificazione con l’unico sommo Sacerdote, quali sono i segni più visibili di un’esistenza trasfigurata dall’immedesimazione con il Crocifisso Risorto? Attraverso quali tratti si riconoscerà la pienezza umana della vita del presbitero, cioè della sua santità? Entra qui in campo la nozione classica di spiritualità. Essa necessiterebbe di molte precisazioni previe. Ci limitiamo a dire che il cristiano per spiritualità non può che intendere vita secondo lo Spirito Santo, che è lo Spirito di Gesù risorto. Inoltre conviene notare che il nesso intrinseco tra spiritualità e santità è ciò che realizza la pienezza umana della vita, dal momento che tale binomio indica la modalità concreta di perseguire quella effettiva ed integrale riuscita dell’esistenza propria della Vergine santissima e dei santi.

Possiamo ora proporre una descrizione sintetica dei lineamenti costitutivi della spiritualità presbiterale intesa come pienezza umana della vita del presbitero (sulla scorta delle indicazioni conciliari, usiamo il termine “presbiterale” sia per assumere l’orizzonte missionario proprio dell’insegnamento di Presbyterorum Ordinis, sia per parlare specificamente dei presbiteri poiché anche i vescovi sono “sacerdoti” ordinati).

A questo proposito è opportuno ricordare che il Decreto conciliare ha esplicitamente considerato i presbiteri in maniera unitaria senza distinguere tra clero secolare e clero regolare, né tra i diversi compiti dei presbiteri (cura di anime, insegnamento…). Gli elementi che metteremo in risalto, pertanto, riguardano tutti i presbiteri, anche i religiosi, indipendentemente dalla loro attività specifica.

 

2. Preso a servizio

Il presbitero non sceglie la sua vocazione, ma è preso a servizio per indicare a tutti i fedeli, soprattutto attraverso l’azione liturgica e sacramentale, Gesù Cristo come modello di vita piena e per partecipare, con una speciale missione, alla sua opera di salvezza. È un dato oggettivo che emerge dagli stessi racconti dell’Istituzione eucaristica, ove si impone un nesso intrinseco tra il «Questo è il mio corpo» e il «Fate questo in mia memoria» (Lc 22, 19 e paralleli).

Tale “indisponibilità” della chiamata risulta tanto più chiara se si riflette sul “dramma”, efficacemente messo in evidenza da Giovanni Paolo II, che attraversa tutta la vita sacerdotale: «“Il sacerdote ministeriale compie il Sacrificio eucaristico in persona di Cristo” […] In persona Christi “vuol dire di più che ‘a nome’, oppure ‘nelle veci’ di Cristo”. In persona: cioè nella specifica, sacramentale identificazione col sommo ed eterno Sacerdote, che è l’autore e il principale soggetto di questo suo proprio sacrificio, nel quale in verità non può essere sostituito da nessuno»[5]. Se il sommo ed eterno sacerdote «non può essere sostituito da nessuno» appare evidente il caso serio della vocazione al sacerdozio ordinato. Nessuno può pretenderlo, né confonderlo con una scelta personale: è, in senso radicale, munus, termine che dice contemporaneamente dono e compito, non mera funzione, e che richiede da coloro che sono stati chiamati a svolgerlo la santità di vita.

 

3. La forma eucaristica dell’esistenza

Ma come è possibile identificarsi con l’unico sommo ed eterno Sacerdote? Per rispondere a questa domanda occorre considerare la natura del sacerdozio neo-testamentario[6]. Esso non è innanzitutto un sacerdozio rituale ma personale, perché “il nuovo culto” – come lo definisce San Paolo (Rm 12,1) – il culto «umanamente conveniente», la logike latreia (cfr Romano Penna) consiste, per prima cosa, nell’offerta di sé a Dio, in Cristo Gesù, mediante il Suo Spirito. Debbono quindi essere scolpite indelebilmente nella mente e nel cuore del presbitero le parole che ha ascoltate il giorno della sua ordinazione: «Renditi conto di ciò che fai, imita ciò che celebri, e conforma la tua vita al mistero della croce del Signore». La vita del presbitero deve cioè assumere sempre più una forma eucaristica, fino a mostrare il permanere dell’incarnazione nella storia, in quella che il catechismo della Chiesa cattolica definisce economia sacramentale[7]. Questa poi trae origine e trova il suo culmine nell’Eucaristia, permanentemente assicurata dal sacramento dell’Ordine. In questa prospettiva si può facilmente cogliere la radice del presbiterato cattolico, che esiste appunto per comunicare il carattere sacramentale dell’evento cristiano. Non solo, ma in forza dell’analogia, la ratio sacramentalis[8] illumina la natura profonda del rapporto dell’uomo con la realtà, perché chiama il cristiano a vivere ogni rapporto e circostanza a partire da questa logica. La concezione della vita come vocazione e la “pretesa” cristiana di non aggiungersi estrinsecamente all’esperienza umana ma di svelarne la pienezza, trovano in queste notazioni un’ulteriore conferma.

La forma eucaristica della vita esige, d’altra parte, che i presbiteri approfondiscano e siano educati alla tendenziale unità di persona e missione, radicata nell’unione a Cristo, «nella scoperta della volontà del Padre e nel dono di sé per il gregge loro affidato»[9]. Lo ha ricordato Benedetto XVI, in occasione dell’apertura dell’anno sacerdotale, parlando della straordinaria figura di Giovanni Maria Vianney: «Ciò che per prima cosa dobbiamo imparare è la sua totale identificazione col proprio ministero. In Gesù, Persona e Missione tendono a coincidere: tutta la sua azione salvifica era ed è espressione del suo “Io filiale” che, da tutta l’eternità, sta davanti al Padre in atteggiamento di amorosa sottomissione alla sua volontà. Con umile ma vera analogia, anche il sacerdote deve anelare a questa identificazione. Non si tratta certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro»[10]. 

 

4. Consacrazione e missione

Già dal proemio di Presbyterorum ordinis si fa riferimento a questo binomio quando si afferma: «I presbiteri, in virtù della sacra ordinazione e della missione che ricevono dai vescovi, sono promossi al servizio di Cristo maestro, sacerdote e re; essi partecipano al suo ministero, per il quale la Chiesa qui in terra è incessantemente edificata in popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo» (PO 1). Inoltre il binomio “consacrazione e missione” è utilizzato dal decreto PO in diverse occasioni, sempre per designare l’origine cristologico-sacramentale del presbiterato (cf. PO 2, 7, 12 e 17; cf. anche PdV 11-15 e 24). È qui evidenziata l’origine cristologico-sacramentale che dà ragione dell’agere in persona Christi proprio del presbitero (cfr PO 2; Benedetto XVI, Catechesi del 14 aprile 2010; 5 maggio 2010; 26 maggio 2010).

Questo binomio radica il presbiterato, e conseguentemente la “spiritualità del presbitero”, nel sacramento dell’Ordine. In forza dell’ordine un fedele cristiano viene configurato a Cristo Capo per l’adempimento della Sua missione: «Ma lo stesso Signore, affinché i fedeli fossero uniti in un corpo solo, di cui però “non tutte le membra hanno la stessa funzione” (Rm 12,4), promosse alcuni di loro come ministri, in modo che nel seno della società dei fedeli avessero la sacra potestà dell’ordine per offrire il sacrificio e perdonare i peccati, e che in nome di Cristo svolgessero per gli uomini in forma ufficiale la funzione sacerdotale. Pertanto, dopo aver inviato gli apostoli come egli stesso era stato inviato dal Padre, Cristo per mezzo degli stessi apostoli rese partecipi della sua consacrazione e della sua missione i loro successori, cioè i vescovi, la cui funzione ministeriale fu trasmessa in grado subordinato ai presbiteri, affinché questi, costituiti nell’ordine del presbiterato, fossero cooperatori dell’ordine episcopale per il retto assolvimento della missione apostolica affidata da Cristo» (PO 2).

L’origine sacramentale della spiritualità del presbitero – che fa riferimento sia all’iniziazione cristiana sia all’ordine (cf. PO 12) -, giustifica perché lo stesso Cristo «rimane sempre il principio e la fonte della unità di vita dei presbiteri» (PO 14; inoltre cf. PdV 23). 

 

5. «Cooperatori e consiglieri» (PO, 7) dei vescovi per la missione apostolica

Un’ulteriore coordinata fondamentale per comprendere la specifica spiritualità presbiterale ci viene offerta dall’unità con cui vengono presentate le tre relazioni costitutive del ministero. Su di esse Presbyterorum Ordinis si sofferma significativamente proprio nel capitolo II sul ministero. Mi riferisco ai numeri 7-9 che descrivono i rapporti con il vescovo, con gli altri presbiteri, con i fedeli e tutti gli uomini.

Prima di descrivere sommariamente questi rapporti, è importante ricordare che la concezione del ministero offerta da PO è inscritta nella “missione della Chiesa”. Infatti, la struttura stessa del decreto fa precedere tutte le riflessioni circa il ministero (capitolo II) e la vita dei presbiteri (III), dalla riflessione fondativa del capitolo I significativamente intitolato: Il presbiterato nella missione della Chiesa. Questa semplice indicazione ci aiuta a capire il carattere intrinseco delle relazioni su cui ora ci soffermeremo. Non si tratta, infatti, di rapporti opzionali, o funzionali al retto svolgimento del proprio ministero, ma dei rapporti costitutivi di quella modalità di assumere la specifica missione della Chiesa che è il presbiterato.

è questo il contenuto esplicito dell’insegnamento di Giovanni Paolo II in Pastores dabo vobis n. 12: «È all’interno del mistero della Chiesa, come mistero di comunione trinitaria in tensione missionaria, che si rivela ogni identità cristiana, e quindi anche la specifica identità del sacerdote e del suo ministero. Il presbitero, infatti, in forza della consacrazione che riceve con il sacramento dell’ordine, è mandato dal Padre, per mezzo di Gesù Cristo, al quale come Capo e Pastore del suo popolo è configurato in modo speciale, per vivere e operare nella forza dello Spirito Santo a servizio della Chiesa e per la salvezza del mondo. Si può così comprendere la connotazione essenzialmente “relazionale” dell’identità del presbitero: mediante il sacerdozio, che scaturisce dalle profondità dell’ineffabile mistero di Dio, ossia dall’amore del Padre, dalla grazia di Gesù Cristo e dal dono dell’unità dello Spirito Santo, il presbitero è inserito sacramentalmente nella comunione con il Vescovo e con gli altri presbiteri, per servire il Popolo di Dio che è la Chiesa e attrarre tutti a Cristo». E più avanti lo stesso Giovanni Paolo II conferma questa impostazione: «Il ministero ordinato, in forza della sua stessa natura, può essere adempiuto solo in quanto il presbitero è unito con Cristo mediante l’inserimento sacramentale nell’ordine presbiterale e quindi in quanto è nella comunione gerarchica con il proprio Vescovo. Il ministero ordinato ha una radicale “forma comunitaria” e può essere assolto solo come “un’opera collettiva”» (PdV 17).

Il presbitero partecipa del sacerdozio di Cristo, ma la sua è la partecipazione propria del collaboratore e consigliere dei vescovi. Il testo di PO 7 parla esplicitamente di comunione gerarchica: «Tutti i presbiteri, in unione con i vescovi, partecipano del medesimo e unico sacerdozio e ministero di Cristo, in modo tale che la stessa unità di consacrazione e di missione esige la comunione gerarchica dei presbiteri con l’ordine dei vescovi». Quello della comunione gerarchica non è un principio amministrativo od organizzativo, bensì sacramentale. L’essere “collaboratore” e “consigliere” del vescovo è proprio del ministero presbiterale, cioè dell’assunzione che l’ordinato fa in prima persona della missione della Chiesa.

Il secondo rapporto costitutivo è quello con il presbiterio. Lo descrive con particolare precisione ed intensità PO 8: «Tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un’intima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono ascritti sotto il proprio vescovo. Infatti, anche se si occupano di mansioni differenti, sempre esercitano un unico ministero sacerdotale in favore degli uomini».

Come si vede l’insegnamento del Concilio pensa il riferimento al presbiterio in termini sacramentali (“intima fraterità sacramentale”) e missionari (“diocesi al cui servizio sono ascritti”). Entro quest’ottica va letto l’istituto giuridico dell’incardinazione. L’appartenenza al presbiterio, pertanto, ha questa radice sacramentale e missionaria, che ne spiega la radicalità.

Il terzo rapporto costitutivo, spiccatamente missionario, si riferisce a tutti i fedeli cristiani (anche i presbiteri sono «discepoli del Signore, come gli altri fedeli» PO 9), al cui servizio sta il ministero presbiterale, e a tutti gli uomini, poiché l’orizzonte è sempre l’umanità intera («devono infine considerare come oggetto della propria cura quanti non conoscono Cristo loro salvatore» PO 9). 

Le tre relazioni costituive indicate sono anche i criteri oggettivi per la matura assunzione personale da parte del presbitero delle grazie carismatiche dello Spirito: ogni carisma dovrà favorire la comunione gerarchica con il vescovo, l’appartenenza al presbiterio e la missione apostolica.

Inoltre questi tre rapporti sono le coordinate che rendono concreta e storica ogni spiritualità presbiterale, poiché il presbitero è chiamato a vivere la vita nello Spirito in una precisa Chiesa locale – fatta di storia, geografia…-, presieduta da questo vescovo, e chiamata qui e ora alla missione. Si comprende, allora, che sarà possibile riconoscere tratti comuni lungo la storia della spiritualità di un presbiterio diocesano, ma che quei tratti si dovranno giocare missionariamente nel presente.

Infine mi sembra opportuno ribadire che, trattandosi di rapporti, essi si danno e si sviluppano sempre a partire dalle persone, cioè, si giocano in prima persona.

 

6. L’esercizio del ministero: la carità pastorale 

Altro tratto caratterizzante la spiritualità presbiterale, è il nesso santità-esercizio del ministero. Al n. 12 di Presbyterorum Ordinis si afferma in proposito: «pertanto, esercitando il ministero dello Spirito e della giustizia, essi vengono consolidati nella vita dello Spirito, a condizione però che siano docili agli insegnamenti dello Spirito di Cristo che li vivifica e li conduce. I presbiteri, infatti, sono ordinati alla perfezione della vita in forza delle stesse sacre azioni che svolgono quotidianamente, come anche di tutto il loro ministero, che esercitano in stretta unione con il vescovo e tra di loro». 

Questo insegnamento può essere formulato riprendendo il tema già accennato della tendenziale unità tra persona e missione, espressione che ovviamente deve essere letta alla luce del mistero di Cristo. L’identità di persona e missione in Cristo spiega perché sia Cristo stesso il principio dell’unità di vita dei presbiteri: «Cristo, per continuare a realizzare incessantemente questa stessa volontà del Padre nel mondo per mezzo della Chiesa, opera attraverso i suoi ministri. Egli pertanto rimane sempre il principio e la fonte dell’unità di vita dei presbiteri. Per raggiungerla, essi dovranno perciò unirsi a Lui nella scoperta della volontà del Padre e nel dono di sé per il gregge loro affidato. Così, rappresentando il buon Pastore, nell’esercizio stesso della carità pastorale troveranno il vincolo della perfezione sacerdotale che realizzerà la unità nella loro vita e attività» (PO 14). 

Nel secondo capitolo il Decreto conciliare si era soffermato sui tria munera (cf. PO 4-6; inoltre cf. PdV 26); per questo al n. 13 descrive nel seguente modo il concreto esercizio del ministero: «I presbiteri raggiungeranno la santità nel loro modo proprio se nello Spirito di Cristo eserciteranno le proprie funzioni con impegno sincero e instancabile». 

 

7. I consigli evangelici 

Non è possibile approfondire adeguatamente in questa sede la dottrina circa l’obbedienza, la castità (celibato) e la povertà nella vita dei presbiteri. Qualche cenno è comunque necessario. Cominciamo col ricordare semplicemente come Presbyterorum Ordinis abbia voluto affrontare questi temi non a partire da un discorso generale sui consigli, bensì riferendosi esplicitamente al nesso natura-ministero-vita dei presbiteri (cf. PO 15-17; PdV 28-30).

Povertà, castità, obbedienza sono il riflesso inequivocabile della completa immedesimazione del sacerdote con Gesù Cristo sacerdote e dicono la modalità con cui egli è chiamato a rapportarsi con le persone, le cose e le circostanze. Il sussiego con cui la cultura contemporanea talvolta guarda a queste dimensioni deve urgere i sacerdoti a viverle in modo ancor più consapevole e maturo, per mostrarne il fascino sempre attuale. Lungi dal rappresentare una mutilazione della personalità del presbitero, quasi che a causa loro egli fosse meno uomo, esse indicano la strada maestra del suo compimento, e in quanto tali possono essere da lui proposte ai fratelli uomini per l’edificazione della vita buona personale e comunitaria. Infatti «Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3, 22-23).

Nell’esprimere la capacità di vivere in maniera ordinata il rapporto con le cose, la povertà implica da parte del presbitero un uso e una responsabilità dei beni personali per l’edificazione del popolo. Nell’affidamento totale a Dio, essa è condizione per la realizzazione integrale della persona. In un momento di grave e persistente crisi economica come quello attuale, testimoniare il giusto ordine nella relazione con i beni, partendo dal principio dello “sviluppo integrale” che poggia su gratuità-fraternità, approfondito da Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, è una ricchezza che la Chiesa è chiamata a proporre a tutta la società.

L’obbedienza attua fino in fondo la natura comunionale del presbiterio. In quanto gerarchica, essa include in sé un principio di autorità che la garantisce nella sua origine sacramentale. Questo ha un’importante implicazione per l’esistenza e di conseguenza per il ministero del sacerdote: la testimonianza vive e cresce solo all’interno di un libero e costante paragone con l’autorità. La maturità sacerdotale, così come la piena maturità cristiana, ma a ben vedere anche quella di ogni uomo, si raggiunge solo quando si riconosce la con-venienza dell’autorità per la propria persona. La virtù dell’obbedienza realizza integralmente la logica sacramentale dell’esistenza, perché chiama il presbitero a leggere nelle circostanze e nei rapporti l’oggettiva chiamata di Cristo che si propone alla sua libertà, attuando pienamente quella sequela Christi che costituisce l’orizzonte ultimo della sua vita.

Attraverso il celibato i sacerdoti, nella chiesa latina, sono chiamati di fatto a partecipare alla forma di amore vissuta dal Figlio di Dio fattosi uomo sulla terra. Chi può pensare che la verginità vissuta da Gesù abbia tolto qualcosa alla Sua umanità? Chi oserebbe dire che la Sua non sia un’umanità riuscita? Dobbiamo pertanto riconoscere con coraggio, al di là di tutte le umane contraddizioni e limiti, che il celibato rappresenta per noi la via alla forma compiuta dell’amore. In forza del dono del celibato – e non malgrado il celibato! – ciascuno di noi realizza nella propria esistenza quella piena maturazione affettiva su cui fiorisce la dimensione nuziale dell’amore. Differenza sessuale, dono di sé e fecondità, le tre dimensioni costitutive del mistero nuziale, si fondono armonicamente, per grazia, nella vita del presbitero, se con semplicità ed umiltà egli obbedisce al dono del celibato, secondo la forma Christi sacerdotis. Il celibato realizza infatti, in forma specifica, quel possesso nel distacco che è il nucleo essenziale della verginità in senso ampio, cui è chiamata, ultimamente, ogni forma di amore in ogni stato di vita. Appare qui un aspetto fondamentale del celibato del presbitero. Oltre a rispondere a una logica escatologica (il celibato per il Regno), cristologica (l’imitazione integrale di Cristo) ed ecclesiologica (il cuore indiviso a favore a servizio dei fratelli) – elementi questi organicamente approfonditi, nell’ottica di una lunga tradizione da Paolo VI nella Sacerdotalis coelibatus (nn. 19-34) – il celibato può essere letto, in chiave antropologica, come una singolare via di compimento affettivo. Esso diviene in tal modo un segno prezioso della feconda circolarità degli stati di vita, attraverso la quale ognuno è chiamato, secondo la propria vocazione e nella testimonianza reciproca, a partecipare all’unico amoroso disegno di salvezza e redenzione all’opera nella storia attraverso la potenza dello Spirito di Gesù risorto.

 

8. Doni istituzionali e doni carismatici

Un’ultima troppo breve parola va spesa sul rapporto tra la spiritualità dei presbiteri e i doni carismatici che lo Spirito elargisce continuamente alla Chiesa perché possa svolgere meglio la sua missione.

Questo argomento ha due possibili linee di sviluppo.

La prima riguarda il rapporto del presbitero con i fedeli che partecipano ad un carisma riconosciuto dalla Chiesa. Si tratta, in questo caso, di una questione legata alla missione e al necessario coordinamento pastorale dell’azione ecclesiale.

La seconda linea di sviluppo è quella che considera i doni carismatici nella vita del singolo presbitero. A questo proposito è importante stabilire due dati fondamentali.

–          Nella vita del presbitero, come nella vita di ogni fedele, sono rintracciabili sia la gratia gratum faciens (grazia santificante), sia le gratiae gratis datae (grazie particolari per l’edificazione dei fedeli e della Chiesa). Con questa terminologia, propria della teologia scolastica, intendo identificare un po’ sbrigativamente ciò che LG 4 chiama doni (grazie) gerarchici e doni carismatici. Da tale distinzione dipendono molte problematiche relative alla dimensione istituzionale e a quella carismatica della Chiesa. Nella Chiesa le due dimensioni sono co-essenziali (come affermò Giovanni Paolo II) e, pertanto, nella vita di ogni fedele sono sempre presenti [indipendentemente dalla modalità in cui la dimensione carismatica si attui: in modo personale o in modo partecipato (associato)]. Infatti, nella vita di ogni fedele si dà contemporaneamente il dono oggettivo della redenzione (dimensione istituzionale, gerarchica) e quello della persuasività storica di questo dono (dimensione carismatica). PdV 31: «Al cammino verso la perfezione possono contribuire anche altre ispirazioni o riferimenti ad altre tradizioni di vita spirituale, capaci di arricchire la vita sacerdotale dei singoli e di animare il presbiterio di preziosi doni spirituali».

–          Il secondo dato è quello che riconosce nei lineamenti della spiritualità presbiterale come li abbiamo descritti, i criteri di verifica (giudizio e ordine) nei confronti delle grazie carismatiche. Queste grazie, infatti, sono date perché nel singolo fioriscano il dono sacramentale della consacrazione e missione, nella trama oggettiva dei rapporti (col vescovo, col presbiterio e con fedeli/mondo), in modo che la carità pastorale sia vissuta nell’esercizio del ministero. Così afferma PdV 31: «L’appartenenza del sacerdote alla Chiesa particolare e la sua dedicazione, fino al dono della vita, per l’edificazione della Chiesa “nella persona” di Cristo Capo e Pastore, a servizio di tutta la comunità cristiana, in cordiale e filiale riferimento al Vescovo, devono essere rafforzate da ogni altro carisma che entri a far parte di un’esistenza sacerdotale o si affianchi ad essa». 

In forza di questi due elementi si può comprendere che la spiritualità del presbitero storicamente si dà sempre secondo il metodo della pluriformità nell’unità, che è il metodo proprio di una adeguata ecclesiologia di comunione. Le conseguenze pratiche di questa affermazione, su cui sarà utile tornare, sono di notevole rilevanza pastorale, come ben mostra la storia della Chiesa (“religiosi”) ed il suo presente (“nuove aggregazioni laicali”).

 

9. Due fondamentali atteggiamenti virtuosi per la pienezza di umanità del presbitero 

a) La vita riconciliata

Come ogni santità, la santità sacerdotale nasce dal dono che ci precede e matura nel sacerdote in virtù di una doppia dinamica. In quanto chiamato, il presbitero è stato veramente mosso e commosso dall’amore di Cristo e vi corrisponde con gratitudine e per desiderio. Gratitudine nei confronti dell’amore sovrabbondante del Redentore. Desiderio di amarLo, di corrisponderGli con il dono della vita. È questo desiderio grato per l’amore di Cristo che fa crescere – ecco la seconda dinamica – l’amore per i fratelli uomini. La vita del presbitero in particolare poggia sull’intreccio fecondo di questo duplice amore. Quello originario di Gesù che ci riempie di gratitudine e quello nostro per gli uomini, come riverbero dell’amore di Gesù per tutti. Il vertice di questo amore, luogo per eccellenza della manifestazione della salvezza e della redenzione è il gesto di Gesù Cristo che sulla Croce offre Se stesso al Padre, nell’unità dello Spirito Santo, per riconciliare il mondo con Dio. Dall’interno di questo gesto incommensurabile di misericordia scaturisce per tutti gli uomini la possibilità di accedere, nei sacramenti, a questa stessa esperienza di riconciliazione. Nel perdono efficace dei peccati si può ritrovare l’unità perduta a cui tutti, in vario modo, anelano. Questo esige prima di tutto dal presbitero la disponibilità a vivere in permanente atteggiamento di confessione, nell’umile riconoscimento del proprio peccato, guardando al Crocefisso come fonte permanente di rigenerazione[11]. 

b) La communio come a-priori

Dalla comunione con Cristo, scaturisce, la comunione tra tutti i sacerdoti nel Presbiterio e con tutti i membri del popolo di Dio, secondo una profonda logica eucaristica che si attua nell’essere-con-l’altro e per-l’altro del sacerdote. Il senso dell’ordinazione sacerdotale si compie proprio nell’inserimento nel Presbiterio, il cui dato costitutivo è l’essere collaboratori e consiglieri del Vescovo, membro, in forza dell’ordinazione episcopale, del collegio dei successori degli apostoli. Si capisce allora che il principio di autorità della Chiesa – il ministero episcopale – possiede, a immagine della Trinità Santa, una forma comunionale. Essa è appunto espressa dall’essenziale appartenenza del Vescovo al collegio episcopale, cum Petro e sub Petro. Per descrivere questa realtà il Concilio Vaticano II ha fatto ricorso a una formula originale. Lumen Gentium parla di communio hierarchica (cfr LG 21-22), attraverso la quale si esprime il fatto che la Chiesa è Ecclesia de Trinitate (LG, 1). Che cosa suggerisce al presbitero il richiamo alla communio hierarchica? Anzitutto il fatto che la comunione, come forma costitutiva della vita della Chiesa proviene esclusivamente dal dono sacramentale di Gesù Cristo. Tale comunione sacramentale si esprime storicamente in forme di partecipazione e corresponsabilità il cui esercizio si fonda sulla reciproca testimonianza. Dal Battesimo-Eucarestia deriva, per ogni cristiano, la perentoria responsabilità della testimonianza, l’unico criterio adeguato della partecipazione e della corresponsabilità della Chiesa. Testimoniare non significa ovviamente dimostrare la propria capacità o bravura. Vuol dire lasciar trasparire attraverso la propria persona la misericordia di Dio: infatti, l’umanità compiuta di cui il sacerdote, così come ogni cristiano, può essere testimone non è merito suo, ma opera dello Spirito del Signore: «Non a noi, Signore, non a noi ma al tuo nome dà gloria» (Sal 113 B). Testimonianza e missione non vanno confuse perciò né con il “buon esempio”, né con la militanza. Esse sono invece il metodo adeguato di conoscenza della realtà e perciò di comunicazione della verità e rappresentano, soprattutto in una società sempre più plurale, la modalità più credibile di espressione della fede cristiana.

Ciò esige certamente l’inderogabile principio della stima previa di ognuno verso tutti radicata nel riconoscimento dell’origine sacramentale dell’unità. In quanto tale essa è più forte di ogni opinione, incomprensione o pregiudizio, pena l’umiliazione della carità, senza la quale nulla ha valore[12].

Se effettivamente vissuta all’interno del presbiterio, la comunione tenderà a dilatarsi ad abbracciare tutti i fratelli uomini. Allora, in una società che, come la nostra, non può non essere conflittuale, anche il sacerdote è chiamato, a partire dalla sua esperienza di vita riconciliata, a mostrare le buoni ragioni per la vita in comune. Ciò non significa ovviamente pretendere di trasferire direttamente il principio di comunione gerarchica nella società civile. Si tratterà piuttosto di indicare a tutti la prospettiva di un’unità che ci precede, ripartendo da quello che Maritain chiamava il bene pratico del vivere insieme e promuovendo con forza la strada dell’io-in-relazione[13]. 

10. Conclusione: il sacerdozio come audacia di Dio

Tratteggiati alcuni elementi della pienezza umana del presbitero potrebbe tuttavia permanere un’insicurezza di fondo. Come infatti è realisticamente possibile accedere alla stessa pienezza umana di Cristo che è in se stesso e nel contempo sacerdote, vittima ed altare? In che modo il presbitero può restare fedele ad un compito di tale imponenza. A questo interrogativo ha fornito una convincente risposta Benedetto XVI in occasione della Messa che ha concluso l’anno sacerdotale: «Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore. Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua, questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola “sacerdozio”»[14]. La pienezza della vita del sacerdote non è un atto di eroismo, ma l’obbedienza umile all’“audacia di Dio” attraverso la quale la contemporaneità di Cristo è perennemente offerta alla libertà di ogni uomo, a quella dell’uomo postmoderno.

Note:
[1] Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis 8.
[2] Id., Dominum et vivificantem 59.
[3] Benedetto XVI, Omelia al Convegno ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006.
[4] Cfr. Id., Verbum Domini 77.
[5] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia 29.
[6] Sul sacerdozio neo-testamentario Cfr. A. Vanhoye, Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote secondo il Nuovo Testamento, Elledici, Leumann TO 1985.
[7] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica 1076.
[8] Cfr. Giovanni Paolo II, Fides et ratio 12-13, 94.
[9] Presbyterorum ordinis 14.
[10] Benedetto XVI, Lettera di indizione dell’anno sacerdotale, 16 giugno 2009.
[11] Cfr. A. Von Speyr, La confessione, Jaca Book, Milano 1995.
[12] Cfr. A. Scola, Eucaristia, incontro di libertà, Cantagalli, Siena 2005. 108-109.
[13] Cfr. Id., Buone ragioni per la vita in comune. Religione, politica, economia, Mondadori, Milano 2010.
[14] Benedetto XVI, Omelia in occasione della Santa Messa  di conclusione dell’anno sacerdotale, 11 giugno 2010.