In occasione della Pasqua 2008 il settimanale diocesano di venezia, gente Veneta, intervista il card. Angelo Scola. Che parla del desiderio di infirito di ciascuno di noi, e della felicità vera, piena, alla portata di tutti.

Gesù, a Pasqua, ha qualcosa da dire, soprattutto, sia a chi si
nasconde nella mediocrità sia a chi si gingilla tra le pieghe del
male e del negativo. Due categorie, queste, parecchio frequentate nel
nostro Occidente opulento, anche se attraversato dai brividi di
ricorrenti crisi.
Gesù, a Pasqua, ha da dire che esiste un percorso, impegnativo ma
alla nostra portata, che conduce alla felicità e alla pienezza. Perché
esiste – lo ricorda il Patriarca – la via per realizzare il
desiderio di infinito che costituisce la stoffa del nostro cuore; ed
esiste il tracciato che ci consente di non precipitare nel baratro
del male né di sostare neghittosamente fra i suoi anfratti, ma di
superarlo, sconfiggerlo e salvarci.

Eminenza, lei ha sottolineato ai giovani, sabato scorso alla Via
Crucis a Mestre, il pericolo di una vita che si accontenta della
mediocrità. In che termini?
Nel nostro clima culturale c’è una tendenza che io chiamo
“accomodarsi nella finitudine”. Lo dicevo ai giovani che, per la loro meditazione
davanti alla Croce, hanno scelto un titolo
bellissimo: “Voglio l’impossibile”. La mentalità
dominante sembra invece insinuare che questo impossibile, cioè la
realizzazione del desiderio di infinito che abita il nostro cuore, non sia
alla nostra portata. E perciò che la
scelta più intelligente, più realistica, più umanamente efficace sia
accomodarsi nella finitudine.

Che significa?
Significa optare per una “via di mezzo”, all’insegna di una
prudenza intesa come puro calcolo, e raggiunta con un furbesco
bilanciamento dei piaceri e dei dolori. Perciò da
più parti ad un giovane viene insinuato lo stesso suggerimento:
a scuola datti da fare ma senza esagerare, così che ci sia tempo anche per altro;
nei rapporti affettivi prova e riprova, tenta e ritenta, e non legarti mai troppo
ad una persona; nel modo di concepire la costruzione della giustizia
sociale, tendi ad ottenere tutti i beni e l’agio conseguibili… certo, se ti riesce,
senza offendere gli altri.

Insomma…
Insomma: il criterio di vita proposto è, nella migliore delle
ipotesi, una sorta di aurea mediocritas, che nega il desiderio di
infinito e propone di sostituire, al Bene con la B maiuscola,
cioè ad un “godimento” che dura perché aperto all’infinito,
un’indefinita serie di beni particolari e di piaceri. Ma i beni spiccioli sono caduchi.
Ed il piacere, a differenza del godimento, finisce subito.

Rispetto a questa mediocrità, che cosa ha da dire l’evento della
morte e risurrezione di Cristo?
Ha da dire che, se l’eterno è entrato nel tempo e se Dio si è fatto
uomo per noi, questo è accaduto per tenere desto in noi il desiderio
di infinito; per dirci, come l’angelo disse a Maria, che nulla è
impossibile a Dio. Gesù è venuto a dire a ciascuno di noi: ciò che
abita il tuo cuore, cioè il desiderio di amare definitivamente, oltre
la morte, e di essere definitivamente amato, è la verità della tua
persona. E tu puoi perseguire questo obiettivo se segui Colui che è
la via, la verità e la vita. Questo è il senso della Pasqua.

Ma qual è, secondo lei, l’argomento più convincente dell’evento
pasquale?
Il Risorto ci svela il nostro personale, concretissimo
destino. Noi risorgeremo nel nostro vero corpo. Il che
significa che la vita eterna non sarà un prolungamento indefinito di
questa vita, dentro questo corpo limitato, ma sarà la rivelazione
piena del nostro corpo, di tutto il nostro io. E noi ne pre-gustiamo le primizie nella
modalità di affrontare gli affetti, il lavoro e il
riposo secondo l’intensità indicata da Gesù:
la vita eterna e il centuplo quaggiù. Dove il centuplo è la
diversa coscienza e la diversa capacità di amare, di lavorare e di
costruire fondate su Chi ci ha liberati dal timore della morte.
E qui si vede benissimo il senso della Settimana
Santa, con la lotta assolutamente unica e straordinaria tra la morte
e la vita, e con la morte singolare di Gesù che ha vinto la nostra morte,
perché la consegna libera e volontaria di Gesù, che poteva
non morire, alla morte si è trasformata nella Resurrezione,
nell’esaltazione definitiva della vita.

Ma lei parlava, oltre che dell’accomodarsi nella mediocrità, anche
della tentazione di sostare tra le pieghe del male…
Sì, ne abbiamo una riprova quotidiana, per esempio, nella modalità
con cui tutte le sere i telegiornali ci costringono ad
assistere ad uno scavo ossessivo del male per cui, in nome dell’audience,
c’è un’insistenza accanita e preversa sui fatti di cronaca più atroci.

E che cosa, in questo caso, ha da dire il Gesù pasquale?
Gesù, a Pasqua, ci mostra come Lui ha affrontato il problema del
male. Ecco il punto: Cristo non è venuto a discutere con gli uomini e
con i sapienti di questo mondo di che cos’è il male, da dove viene e
dove va. È venuto ad assumerlo su di sé, da innocente, dando la sua
vita. Ecco perché, durante questa Settimana Santa, ognuno di noi,
quando si pone di fronte al proprio peccato, o quando si confronta con
il male fisico, dovrebbe prendere in mano il crocifisso e
guardare a Gesù che, assumendo tutta la pressione delle nostre colpe
sulle sue spalle ed inchiodando il nostro
debito sulla croce, si è tuffato liberamente nel mistero del male,
lo ha attraversato fino alla feccia e ne è uscito
vincitore. Ecco il valore del continuo riferimento al Battesimo
nella Settimana Santa. Noi moriamo con Cristo al male e al peccato
per risorgere con Lui: siamo già risorti con Lui. Ecco la radice
della nostra speranza, come scrive Paolo ai Colossesi. Non parliamo
di un avvenimento del futuro: questo è un processo che, per il
battesimo, l’eucaristia, la fede e la vita della comunità, è già in
atto. Per questo siamo “spe salvi”, salvati nella speranza e
portatori di speranza. Per questo noi non condanniamo il
mondo, né condanniamo l’uomo europeo di oggi, ma abbiamo motivi per
trovare l’energia di testimoniare che vogliamo l’impossibile. Per
dire cioè che il compimento del nostro io è alla nostra portata in forza della
Verità vivente e personale che è Gesù. Ci con-vince seguirlo.

In questa Settimana segnata dalla morte che precede la risurrezione,
quali sono i suoi pensieri quando pensa alla morte, che coglierà
anche lei?
Io tento lentamente di trovare fiducia, speranza e consolazione
nell’affermazione paolina: staremo sempre con il Signore.
Cerco di non soffermarmi ad immaginare astrattamente come saremo,
perché Gesù ci ha detto tutto il necessario
perché la nostra libertà aderisca a Lui, ma non ci ha
rivelato il “tutto” del dopo la morte. È inutile surrogarlo
con le nostre goffe e rozze immagini.
Come lui ci ha insegnato, infatti, bisogna prima
passare fisicamente attraverso l’esperienza del morire, né si può
pensare di dominare quest’esperienza  con la testa, prima di compierla. Per cui
io, aldilà delle comprensibili, umanissime paure – perché la
morte resta laida – tento di abbandonarmi alla compagnia che
Cristo mi offre e che oggi sperimento nella comunità cristiana.
Saremo sempre con Lui e già lo siamo, dentro la comunione della
Chiesa, quando la prendiamo sul serio. Lo siamo per il nostro bene,
per il bene dei nostri amici, per il bene di tutti i cristiani e per
il bene di tutti gli uomini.

Giorgio Malavasi

Box ricordi <grande processione del Venerdì Santo, con la statua del Cristo morto,
al mio paese>.
Il Patriarca ricorda uno dei momenti della sua
infanzia cui torna più volentieri con la memoria: un rito pasquale
grazie a cui il bambino Angelo Scola si apre alle prime intuizioni e
consapevolezze della fede.

La grande processione con il Cristo morto, la sera del Venerdì Santo.
Siccome la chiesa di Malgrate è in cima ad un colle mentre l’abitato è sul lago,
si scendeva in processione dalla chiesa
con un’imponente statua di Gesù morto, e si percorreva tutto il
lungolago, dove gli uomini preparavano degli enormi falò. A quel
punto si entrava in una cappella stracolma di ossa dell’ultima grande
peste del ‘600 che aveva colpito la zona. Ricordo che il riverbero di
quelle luci sul volto della statua di Cristo mi costringeva ad una
immedesimazione con l’evento del Venerdì Santo. E lì
ho ancora scolpita nella memoria la volta
– me lo ricordo benissimo, sarò stato in terza o in quarta elementare –
in cui mi colpì la fisicità di Gesù. Lì per la prima volta intuii
l’importanza dell’immagine e della
reliquia per la fede. Perché la fede nel Dio incarnato ha veramente
bisogno di incontrare, in primo luogo nel sacramento dell’eucaristia
e nell’adorazione del Santissimo, ma in forma derivata anche nella
reliquia, nell’icona o nel dipinto, il segno tangibile della presenza
di Dio. Fu quel Venerdì Santo al mio paese, vedendo il gioco
della luce dei fuochi, di questi grandi falò sulla statua di Cristo,
che percepii che Gesù è un oggi, non un passato>.