Riportiamo di seguito, come spunto di riflessione, uno stralcio del cap. 3 del libro del card. Angelo Scola “Come nasce e come vive una comunità cristiana” (Venezia, 2007, Marcianum Press editore).
Per una concreta educazione al gratuito
Se l’esperienza dell’amore, del gratuito, avviene e matura sempre dentro un processo di continuità e discontinuità, si capisce perché si debba parlare di educazione al gratuito. Una tale esperienza non è ovvia, non viene da sé. Mentre è proprio qui, invece, che si annida la nostra tentazione. Anziché capire che per educarci all’amore pieno, dobbiamo trasfigurare la nostra inclinazione naturale all’amore, noi riduciamo spesso l’amore alla pura inclinazione naturale. Tanta esperienza di volontariato si vanifica su questo punto.
Come dice Paolo ai Galati: «siete così privi d’intelligenza che, dopo aver incominciato con lo Spirito, ora volete finire con la carne?» (Gal 3, 3). Il rischio, a questo livello, è molto elevato e, per batterlo, ci vuole una lenta e paziente educazione al gratuito. Al gratuito assoluto. Io devo educare me stesso a dare spazio in me a Colui che mi ha amato per primo. Devo fare in me l’esperienza di cui parla Paolo «quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio» (Rm 5, 10). Ama veramente soltanto Colui che ama per primo. Non esiste un’esperienza di amore reale se non in Colui che ama per primo, che prende l’iniziativa dell’amore. L’amore non è, come dicevano gli stilnovisti («amor, ch’a nullo amato amar perdona »6), pura risposta all’essere amato. Quello è un elemento derivato dell’amore. Ma l’amore in senso pieno lo si vede in Cristo Gesù che ci ha amati – in modo del tutto gratuito, espressione crocifissa e risorta della misericordia della Trinità – per primo, quando ancora eravamo suoi nemici, quando eravamo peccatori.
Come, concretamente, educarci a dare spazio a Colui che ci ha amato per primo? Innanzitutto possiamo individuare due criteri elementari. In primo luogo ci si educa al gratuito praticando l’amore come pura gratuità. In secondo luogo ci si educa richiamandosi instancabilmente – e qui la dimensione comunitaria dell’educazione al gratuito è assolutamente decisiva, ineliminabile – a questa pienezza dell’amore: Ama Colui che ama per primo. L’amore non sta a guardare come gli altri hanno reagito, come si sono comportati, come reagiranno, cosa faranno, se capiranno, se… L’amore non calcola mai sulle conseguenze. È necessario educarsi al gratuito lungo tutta la propria esistenza. Richiamandoci nella comunità, instancabilmente, che la pienezza dell’amore sta in questo: ama veramente Colui che ama per primo. Ma è possibile descrivere ulteriormente la dinamica di una concreta educazione al gratuito. Possiamo individuare cinque direttive fondamentali.
a) La condivisione del tempo libero. Proprio il tempo libero dal lavoro, dai normali impegni, è quello in cui si vede meglio ciò a cui io veramente tengo. Dedicando, scegliendo di dedicare una parte del proprio tempo libero (un’ora al mese o un’ora alla settimana, dipende dall’età e dalle condizioni imposte dalla propria vocazione) alla condivisione gratuita del bisogno di un altro con una iniziativa che non calcola su nulla, imparo a vivere tutto il tempo secondo la legge dell’esistenza. Le possibilità sono innumerevoli: gli anziani da andare a trovare, magari giocando a carte con loro, o portandoli a fare una passeggiata, o lo stare con i bambini che sono più nel bisogno, o il servire ad una mensa, in una maniera regolare e fedele. L’educazione al gratuito, nel suo dato essenziale, primario, elementare, fondativo, è donare una parte del mio tempo come segno del dono di me stesso.
Come una eco del dono di Cristo a me. Senza nessun’altra ragione che questa: imparare a fare spazio all’iniziativa di Cristo che mi ha amato per primo, assumere la forma gratuita dell’amore, imparare ad amare gratuitamente.
b) La fedeltà e la continuità di questo gesto. La ripetizione, da non confondere con la ripetitività, perché la ripetizione (pensiamo all’Eucaristia domenicale) è sorgente di vera novità, ed è condizione necessaria per l’educazione. Devi ripetere una poesia finché non l’hai imparata. Devi ripetere la tabellina finché non l’hai imparata. Devi ripetere il capitolo di storia finché non l’hai imparato. La ripetizione è la condizione inevitabile che la creatura finita deve attraversare per guadagnare la conoscenza e il possesso del reale. A maggior ragione, se si tratta di guadagnare una qualche conoscenza di Dio. Ecco la sapienza della Chiesa che, come condizione per essere cristiani, non ci ha chiesto di imparare una teoria o di essere perfetti, di non sbagliare… ci ha chiesto la ripetizione del gesto dell’Eucaristia domenicale e del gesto della Riconciliazione come minimo una volta all’anno. Ci ha chiesto la ripetizione di questo gesto. La ripetizione diventa ripetitività abitudinaria solo in chi non ha ancora percepito il senso del Mistero. Non ci si educa senza una stabile ripetizione. Ora, come l’Eucaristia è stabile e bisogna esserne fedeli, così l’educazione al gratuito, ma anche al pensiero di Cristo e a vivere le dimensioni del mondo, comporta questa stabilità.
c) Spostare il baricentro dell’azione caritativa – di questo gesto semplice e fedele di condivisione – dal “per gli altri” al “per sé”. Ritorna qui l’avvertimento del Papa: nell’esercizio della carità è in gioco innanzitutto l’autenticità della nostra fede e non il risolvere i problemi altrui. Il gesto di educazione al gratuito non è anzitutto – sottolineo anzitutto – per un servizio o per risolvere i problemi: è per imparare ad amare come ha amato Cristo. In questo senso è “per me”, è per educare me. Questa osservazione non coincide con quella che si sente spesso ripetere “Ho iniziato credendo di dare ma, cammin facendo, mi sono accorto che è più quello che ricevo che non quello che do”. Si tratta di un livello più originario. Si tratta del motivo per cui compio questo gesto; la ragione esauriente è che voglio fare spazio al modo con cui Cristo ama, per imparare l’amore. Al gratuito mi devo educare. Devo educare me. Ovviamente nel gesto di condivisione, terrò conto del bisogno dell’altro. Il tempo da dedicare fedelmente a questo gesto – in analogia con quello dedicato all’Eucaristia – può essere riempito da circostanze molto elementari, molto semplici: può essere l’andare a servire alla mensa dei poveri, o l’andare in una Casa per anziani, può essere il visitare in casa degli ammalati, può essere far giocare i bambini in patronato, o l’andare a ristorare un poco i senza fissa dimora durante la notte, quando fa freddo… può essere qualunque cosa. In prima battuta non c’entra il servizio e non c’entra il risolvere i problemi. Quelli verranno, nel tempo e nei modi opportuni.
d) Fare per capire. Pensiamo alla preghiera. Noi spesso facciamo tante teorie sulla preghiera, ma non preghiamo. Invece il fare è condizione per capire. Se uno prega, capisce che cosa vuol dire pregare. Se uno non prega può fare tutte le teorie che vuole sulla preghiera, può fare corsi e corsi sulla preghiera, può fare scuole e scuole di preghiera ma non cambia niente. Così è nell’educazione al gratuito. Perciò nelle nostre comunità bisogna avere la libertà di invitare, di aiutare i giovani ma anche gli adulti, ognuno secondo le proprie condizioni, a questo tipo di condivisione. Ognuno di noi ha bisogno di farlo, deve trovare la sua forma e il suo modo.
e) Insieme. È importante curare che il gesto per quanto personale, non sia individuale. Che sia sempre, in un qualche modo, vissuto comunitariamente, deciso comunitariamente. Si tratta, infatti, di un gesto non individuale ma personale – e la “stoffa” della persona è comunionale –, un gesto che ognuno compie sapendo di appartenere alla comunità. E questo, soprattutto per i giovani, può esprimersi anche visibilmente in un momento di preghiera o all’inizio o alla fine del gesto. È importante perché, così, diventa realmente edificatore di comunione.