Riportiamo di seguito, come spunto di riflessione, uno stralcio del cap. 1 del libro del card. Angelo Scola “Come nasce e come vive una comunità cristiana” (Venezia, 2007, Marcianum Press editore).
Quattro tratti della comunità cristiana
L’incontro personale con Gesù, che come abbiamo visto ha un’origine sacramentale, genera il soggetto nuovo che è la Chiesa, il popolo di Dio. In esso ogni fedele è chiamato a vivere secondo la dinamica della comunione. Vengono così generate e permanentemente rigenerate le comunità cristiane. Vale la pena descrivere quattro tratti identificanti di una comunità cristiana che vive integralmente il suo essere un nuovo soggetto.
a) L’adesione a Gesù attraverso la comunità deve essere libera e personale. Individuare il momento storico nella propria vita in cui il Battesimo è diventato avvenimento significativo per me (l’incontro), è decisivo perché permette di riconoscere il momento in cui la mia libertà ha iniziato a giocarsi in prima persona. Infatti, solo se l’adesione è libera e personale sarà possibile evitare il rischio che la comunità diventi un collettivo, un fenomeno meramente associativo, che può realizzare programmi e iniziative anche molto utili, come tanta vita associata ci documenta. Ma senza questa spinta personale, quotidiana e libera non sarà una vera comunità.
Come ripeto sempre ai giovani, il criterio della adesione personale a Cristo Signore, nella comunità può essere sintetizzato con la formula: ciò che mi è dato, mi corrisponde, e non: ciò che mi corrisponde, mi è dato. Qui sta il punto critico e, nello stesso tempo, il test inconfondibile di quel nascere dall’alto, di nuovo, che Nicodemo non riusciva a capire: «Può forse un uomo entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (Gv 3, 4).
Questo criterio è fondamentale perché è l’unico capace di mantenere vivo il carattere di dono gratuito proprio dell’incontro con Gesù. Infatti se il contenuto dell’adesione fosse da me deciso e misurato, non potrei incontrare che me stesso! Invece il criterio per vivere la comunione è aderire a ciò che mi è dato. Infatti ciò che mi è dato, siccome mi è dato dal Padre che guida la storia e guida la mia storia personale, è ciò che più profondamente mi corrisponde e mi realizza. La conseguenza di tale criterio è che la comunione implica innanzitutto una sequela e un ascolto. «Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dàllo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Mt 19, 21). Se vuoi essere felice, vieni e seguimi. Senza la sequela come punto di partenza è impossibile una mossa di libertà, perché la sequela è il riconoscimento che ciò che mi è dato è veramente ciò che più corrisponde al bene della mia vita. Anche il mio nemico. Anche il fratello che mi tradisce. Anche la circostanza più tragica, perfino la malattia, la separazione o la morte prematura della persona più cara. Ci potrai mettere tutta la vita per capire il positivo di tale circostanza, ma c’è un positivo anche dietro di essa. È impressionante, ma è così. Questa è la logica della vita cristiana, della libertà cristianamente intesa.
b) La vita della comunità, in forza della grazia della comunione, si esprime come differenza nell’unità. L’unità è il bene supremo della persona. Io posso crescere, svilupparmi, realizzarmi, perché sono uno. Cambiano le età della mia vita: io sono molto diverso oggi, a 65 anni, da quando ne avevo 5, però sono sempre io. Gesù Cristo è molto diverso oggi rispetto a quando camminava con i Suoi amici lungo le rive del Lago di Genezaret. È diverso il modo con cui Egli cammina oggi attraverso la Chiesa, dentro la realtà, eppure è sempre quello. Cristo è uno.
Nella comunità cristiana lo Spirito assicura l’unità attraverso la pluriformità dei doni e dei compiti. A tal punto che quanto più una comunità è differenziata, quanto più numerosi sono i doni che vivono al suo interno, tanto più è completa e vitale. L’unità è garantita dalla sinfonia delle differenze. Infatti, come recita il titolo di un famoso volume di Balthasar, la verità è sinfonica.
I Padri sinodali, riuniti nel Sinodo straordinario dell’85, a vent’anni dalla conclusione del Concilio, hanno definito l’ecclesiologia del Vaticano II come ecclesiologia di comunione. Hanno indicato una visione della Chiesa come comunione, il cui metodo – così è scritto nel documento finale – è la pluriformità nell’unità. Ponendo questo tema si intende dire che la varietà di forme che una comunità ecclesiale assume, per iniziativa dello Spirito e per la libertà personale del fedele, vive sempre nell’unità. Attenzione: non si dice “unità nella pluriformità”, ma al contrario si dice “pluriformità nell’unità”, per evidenziare che alla radice della Chiesa, di ogni comunità cristiana, c’è l’unità. Nell’unica diocesi c’è una pluriformità di parrocchie; in una parrocchia c’è una pluriformità di comunità o di aggregazioni ecclesiali ecc. ecc.
Attraverso la pluriformità nell’unità lo Spirito favorisce la missione, l’apertura a 360° della comunità cristiana. Ciò documenta che l’appartenenza è un fatto dinamico, non rigido. Non è una chiusura, al contrario: è la condizione per l’apertura verso l’esterno. Quanto più una comunità sarà pluriforme nell’unità, tanto più potrà capillarmente andare incontro a tutti i nostri fratelli uomini, in qualunque ambito dell’umana esistenza. Il perimetro della comunità arriva fin dove arriva il perimetro di vita del battezzato che appartiene a quella comunità lì. Anzi coinvolge, tendenzialmente, tutti i nostri fratelli uomini.
c) Perché l’adesione sia personale e la pluriformità nell’unità possa attuarsi, la comunità vive del doppio dinamismo di autorevolezza ed autorità. L’autorevolezza è il dono che, attraverso un carisma, o attraverso un compito particolare, o attraverso circostanze o momenti particolarmente felici dati ad uno o ad altro, lo Spirito fa a tutta la comunità.
Siccome rispetto a Dio siamo (e lo saremo sempre) come scolaretti («erunt omnes docibiles Dei» Gv 6, 45), diventiamo maestri gli uni per gli altri, siamo autorevoli gli uni per gli altri. È l’idea della testimonianza. Ci può essere l’autorevolezza di un anziano verso un bambino, ma anche quella di un bambino verso un anziano. Forse gli incontri per me più fecondi, da cui imparo di più, durante la Visita pastorale, sono quelli con i bambini… Siamo autorevoli gli uni per gli altri. L’autorevolezza è reciproca. Anzi è la condizione di comunicazione normale dentro la comunità. A patto, però, che non si perda di vista un secondo fattore, irrinunciabile, l’autorità. Dentro una comunità l’autorità costituita è una sponda ultima di verifica. L’ideale è che in ogni comunità l’autorità sia sempre, di fatto, anche autorevole.
L’ideale è che tutti si sia autorevoli gli uni per gli altri, ma lo Spirito di Cristo ha stabilito un punto di autorità oggettiva e costituita, non fondata necessariamente sull’intelligenza e sulla capacità. Gesù ha identificato gli Apostoli, ha chiamato i Dodici. Poi all’interno dei Dodici ha identificato Pietro, e lo ha costituito come garanzia in senso ultimo. Ecco perché la comunione è, nel senso nobile della parola, gerarchica; è ordinata.
d) Infine la pluriforme unità della comunità deve essere sensibilmente espressa e documentata. Ogni uomo, sempre ed ovunque, ha il diritto di incontrare la comunità cristiana per poterla vivere. Io devo poter dire al compagno di lavoro o alla amica che trovo al supermercato: «Vieni e vedi» (Gv 1, 39). La comunità cristiana, quindi, deve essere sensibilmente espressa.