BUONE RAGIONI PER LA VITA COMUNE – E’ disponibile in libreria il nuovo libro del card. Angelo Scola, “Buone ragioni per la vita in comune. Religione, politica, economia” (Mondadori 2010, pag. 120, euro 17,50).
In un contesto potenzialmente conflittuale come quello presente, è necessaria, da parte di tutti i soggetti della società civile, la disponibilità a un reciproco e comune riconoscimento, teso ad affermare l’importante valore sociale dell’“essere insieme”. Attraverso i temi della religione in rapporto con la società, e in special modo con la politica e l’economia, il saggio si propone di rintracciare il filo che conduce a una condizione di stabile e autentica “amicizia civile”.
Quasi un decennio è passato dall’11 settembre 2001. Più di vent’anni ormai ci separano dalla caduta del muro di Berlino, mentre dal 2008 siamo investiti da una crisi economico-finanziaria di proporzioni planetarie e dagli esiti molto incerti. Ognuno di questi eventi ha avuto la forza di un nuovo inizio, gettandoci in situazioni in cui ancora stentiamo a orientarci. Con la fine della modernità, si è andata configurando una società sempre più globalizzata, un «meticciato di civiltà e culture», che fatica a riconoscere punti di riferimento assoluti, ideologici e religiosi. Se nel XX secolo si è assistito, secondo le parole di Giovanni Paolo II, a una «contesa sull’humanum», dove l’oggetto del contendere era ancora identificabile, ora è decisivo interrogarsi su chi sia l’uomo stesso.
Chi vuole, dunque, essere l’uomo del terzo millennio?, si chiede Angelo Scola, patriarca di Venezia e insigne teologo. L’interrogativo gli offre lo spunto per una breve ma densa riflessione sul ruolo delle religioni nella società odierna, in rapporto soprattutto con la politica e l’economia. In un contesto plurale e quindi tendenzialmente conflittuale, esse possono dare un apporto prezioso alla creazione di «pratiche virtuose» che pongano al centro dell’attenzione l’essere umano e il reciproco riconoscimento dei diversi soggetti sociali.
L’analisi dell’autore si focalizza quindi sulla capacità di chi professa una religione, in particolare quella cristiana, di porsi in relazione con la realtà politico-sociale, assumendo «la dimensione ecumenica e del dialogo interreligioso come intrinseche alla vita di fede» e facendosi portatore dei principi democratici del vivere insieme. In tale ottica diventa di primaria importanza il tema della libertà religiosa, che deve essere riconosciuta al singolo e alla comunità come frutto di una scelta dettata dalla coscienza e dall’adesione al principio di verità. La testimonianza del fedele, la «grammatica del narrare Dio», implica «un cambiamento radicale di mentalità nella pratica e nella concezione della vita» e diventa perciò valore primario di conoscenza e comunicazione. Il cristianesimo, in un dialogo fecondo con le altre religioni, è dunque chiamato a essere attore determinante nella costruzione di una società plurale in cui le differenze non siano elementi di deriva e disgregazione ma contribuiscano alla «vita buona nella “città comune”».