da “Il Sole 24 Ore” del 21 giugno 2014 –
Paesi nuovi che si accalcano e spingono per entrare e paesi, entrati tra i primi decenni fa, attraversati da vistosi fenomeni di rigetto o, per lo meno, di scettica presa di distanza… La situazione attuale della cosiddetta Eurozona, magmatica e in continuo movimento, pone un interrogativo non più dilazionabile: quale anima e quale destino per l’Europa?
Le recenti elezioni europee sembrano aver creato più problemi di quanti ne possano risolvere.
Non mi riferisco tanto al populismo antieuropeista di cui troppi parlano senza riuscire a spiegarne il significato, né a coglierne le diversità tutt’altro che ovvie. Nemmeno ho in mente la nuova forma del conflitto tra Commissione, Consiglio e Parlamento europeo evidenziata dal dibattito su chi sarà il futuro presidente. E, senza volerne negare la grande importanza, non credo neppure che il cuore della questione sia la natura della Banca centrale europea e il suo eventuale potere di stampare moneta. L’aggravarsi del “problema-Europa”, svelato dalla scarsa partecipazione dei cittadini al voto, domanda di andare più in profondità. Esiste un cittadino europeo? E se esiste quale ne è la fisionomia? Dalla tragedia delle due guerre mondiali nacque una politica europeistica. Come? Attraverso l’idea del civis europeo inserito nella città/casa comune. La polis europea – i padri fondatori lo capirono bene – esigeva che tutte le nazioni promuovessero quella vita buona simultaneamente perseguita dal singolo e dalla comunità. Non sarà inutile ricordare che né la raffinata polis greca né l’articolata civitas romana erano giunte a intendere la società come casa, come dimora. In entrambe le visioni, infatti, l’uomo è concepito come civis nella misura in cui lo Stato gliene riconosce, a vario titolo, i diritti.
Manca una figura effettiva e stabile, capace di assicurare quell’origine che genera unità tra i cittadini e rende la società dimora. Non c’è in quei modelli di società la figura del Padre. E di conseguenza è assente la categoria di persona intesa nel suo valore concreto e pratico, la sola che possa imprimere alla libertà una equilibrata direzione creativa e comunitaria. Una concezione che favorisce la relazione tra persona, corpi intermedi (società civile) e stato.
Quale via percorrere, allora, per dare un’anima all’Europa e assicurarle un destino? A costo di apparire noioso, ripeto qui quella che a mio giudizio è la via maestra. Occorre immettere in termini rigorosi nella società plurale europea una scommessa, tanto affascinante quanto ultimativa: chi vuol essere l’uomo del terzo millennio? Gli uomini non sono solo uguali, sono soprattutto responsabili gli uni degli altri.
Ciascuno è responsabile di tutti e del tutto. Siamo, infatti, fratelli. È un tema antico che compare già sulla bocca di Caino, quando Dio lo tallona dopo l’uccisione del fratello: «Sono forse io il guardiano di mio fratello?» (Gn 4,9). L’unica risposta ragionevole è sì. Perché? Per l’esperienza che l’uomo di ogni luogo e di ogni tempo si ritrova addosso: l’io è sempre in relazione, costitutivamente in relazione. Solo così è persona e quindi civis che abita la dimora sociale.
Non si possono difendere i diritti del singolo senza essere responsabili del corpo a cui si appartiene. E questo vale per l’intera sequenza dei diritti, a partire da quelli fondamentali, personali e sociali, per giungere a quelli religiosi, politici ed economici e a quelli del lavoro e dell’ecologia umana e ambientale.
Possiamo allora dire che la fisionomia del cittadino-persona, costitutivamente abitante una dimora, membro della societas, è ciò che il cuore dell’europeo contemporaneo domanda.
Il volto dell’Europa è quello di una bella madre piena di rughe, perché per secoli ha portato il peso dei molti cambiamenti di cui ha goduto tutto il mondo e che oggi, guardando lucidamente la complessità della situazione internazionale, non può rinunciare al suo compito su scala universale, ma rischia di smarrirsi per sentieri interrotti. Ha bisogno di uomini e di comunità – certamente già in essa presenti e operanti – che perseguano ostinatamente la ricerca di questa anima.
Per farlo non si deve disdegnare di partire, come fecero i padri fondatori che si occuparono di carbone e di acciaio, dai problemi concreti come quelli richiamati all’inizio. Si tratta di farlo attraversandoli con la sagacia di chi sa scorgere in essi la traccia dell’ideale. Senza escludere nulla e nessuno, costruendo una politica Mediterranea e forse anche incominciando a parlare di Eurasia, ora che molte ricerche, non ultime quelle linguistiche, ci hanno mostrato il fecondo nesso tra Alessandria, Gerusalemme, Atene, Roma e le più antiche culture asiatiche.
Sono temi che riguardano i popoli europei e non possono essere semplicemente delegati ai tecnocrati e ai politologi.