Mercoledì 11 novembre, in mattinata, il Patriarca ha tenuto la prolusione di inaugurazione dell’Anno Accademico 2009-2010 del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famiglia di Roma, nel XXIX Anniversario di Fondazione.

Il quotidiano Il Foglio ne ha pubblicato un ampio estratto, che qui si riporta.

Amore e neuroscienze

Il termine neuroetica si è diffuso grazie ad un articolo scritto nel 2002 da William Safire sul New York Times. In un primo tempo indicava una significativa estensione del campo della bioetica, poi una scienza autonoma. Ora, come nota Adina Roskies, la neuroetica ha per così dire compiuto un salto di qualità mediante lo studio di quelle caratteristiche che ci definiscono propriamente come esseri umani.

Oggi si parla pertanto di etica delle neuroscienze e di neuroscienze dell’etica. La neuroetica non si limita quindi a pronunciarsi sui problemi etici che sorgono dall’applicazione delle neurotecnologie, ma alimentandosi, di fatto o esplicitamente, ad un confronto sempre più serrato con l’etica, la filosofia, la teologia morale, la psicologia, la pedagogia, l’arte, il diritto e l’economia vuole rispondere, partendo rigorosamente da sofisticate indagini scientifico-sperimentali, all’interrogativo: cosa significa realmente esistere come esseri pensanti (N. Levy)? È possibile ri-significare in termini puramente neuronali un simile interrogativo per cercare di rispondervi?

La posta in gioco è molto importante se Adina Roskies, considerata l’iniziatrice delle neuroscienze dell’etica, giunge ad affermare: «Man mano che procederemo nella comprensione di comportamenti complessi la concezione del cervello come macchina deterministica andrà a minare la nozione stessa di libero arbitrio e di responsabilità morale».

Il complesso fenomeno dell’affettività umana non poteva dunque sfuggire e non è sfuggito a questo approccio di lavoro. Con risultati solo in parte degni di nota.

E così è avvenuto che le neuroscienze contemporanee e la psicologia cognitiva abbiano cominciato, oggigiorno, a studiare in sinergia anche l’amore umano.

Lo fanno con strumenti di lavoro ormai consolidati, strumenti con cui sono stati indagati molti comportamenti umani caratteristici ed alcune “peculiarità” di Homo sapiens (freewill, senso morale, giudizio etico, estetico ecc.). Si parte con un’indagine psicologica, effettuata solitamente tramite quiz a risposta multipla; si passa poi all’analisi statistica intra ed inter-culturale dei dati raccolti in questo modo, per cercare di individuare dei trend cui fornire successivamente un’interpretazione scientifica, e da associare all’eventuale scoperta di un nuovo “universale biologico”. Il passaggio ormai quasi obbligato è la ricerca di un ancoraggio al substrato neuronale. Si cerca cioè di trovare il “correlato neuronale di..” questo o quel fenomeno di interesse. Partendo dalle neuroimmagini ottenute (tramite fMRI – Risonanza magnetica funzionale per immagini), si fornisce infine una spiegazione per lo più di tipo adattativo-evolutivo: qualcosa che sia in grado di ricollegare un accadimento biologico presente al nostro passato evolutivo di cacciatori-raccoglitori pleistocenici.

Helen Fisher, antropologa americana, considerata tra le esperte del settore, pubblica ormai da diversi anni libri e articoli scientifici che riguardano il tema dell’amore, sia specialistici che divulgativi.

La studiosa, con il suo team di ricerca, ha dedicato un’importanza considerevole al cosiddetto stadio dell’amore romantico (romantic love). L’amore romantico sarebbe, a detta dell’autrice, uno dei tre poli cardinali attorno ai quali si snoda l’intera parabola affettiva-relazionale tra uomo e donna. Il primo è costituito dall’attrazione sessuale (libido o lust), il secondo sarebbe appunto l’amore romantico (romantic love) ed il terzo l’attaccamento (attachment): «Credo che l’amore romantico sia una delle tre reti primordiali del cervello, che si sono sviluppate per spingere gli esseri viventi all’accoppiamento e alla riproduzione. La libido, cioè il desiderio di gratificazione sessuale, si è manifestato per motivare i nostri antenati alla ricerca di un rapporto sessuale con un qualsiasi partner. L’amore romantico, l’euforia e l’ossessione dell’innamoramento, li ha spinti a concentrare l’attenzione su un solo individuo alla volta, conservando così tempo prezioso ed energie per l’accoppiamento. E infine l’attaccamento uomo-donna, cioè la sensazione di pace e di sicurezza, che spesso si prova per un partner di lunga durata, si è sviluppato affinché i nostri antenati amassero questa persona abbastanza a lungo da allevare i figli nati dalla loro unione» (H.Fisher). In questa breve citazione notiamo subito un fattore determinante delle ricerche in analisi: la sottolineatura della “funzionalità adattativa” di ogni stadio considerato. L’attrazione sessuale serve per dare la caccia ad un partner a scopo riproduttivo; l’amore romantico serve per focalizzarsi su un solo specifico partner; l’attaccamento favorisce la formazione di una coppia monogama (monogamia seriale) con lo scopo di allevare la prole.

La questione dell’amore umano diventa così un contenuto dell’impresa neuroscientifica contemporanea che, come le altre, ha significative ricadute neuroetiche e neurofilosofiche.

È pertanto sufficiente, ma nello stesso tempo necessario, affrontare in questa sede il problema delle neuroscienze dell’etica in generale.

Non mi addentrerò, da profano, in campi specialistici. Cercherò di prendere sul serio, dal mio punto di vista, che è quello della fede e della teologia, la questione che attraversa le ricerche delle neuroscienze e che investe frontalmente la neuroetica (e la neuroantropologia): Come è possibile che parti di materia priva di coscienza producano coscienza?

Correlazione non è causalità

Questa che è la questione basilare può essere scomposta a sua volta in tre domande: è il cervello a produrre la mente? Se sì, dal funzionamento del cervello si induce una spiegazione esauriente della natura dell’uomo? In tal caso che ne è di ciò che la tradizione, ma anche, in buona misura, il senso comune, chiama anima (spirito)?

Per tentare una risposta vedo necessario compiere due passi.

Il primo consiste nel ribadire il noto principio che l’hoc post hoc non implica l’ergo propter hoc. Correlazione e successione non dicono causalità. La critica è applicabile a certe estremizzazioni contenute nella elaborazione del cervello etico, così come a certe letture riduzioniste degli strabilianti risultati dovuti alla risonanza magnetica funzionale per immagini, agli esperimenti sul senso morale, sul libero arbitrio e sui neuroni specchio! In tutti questi casi i dati sperimentali di cui si viene a disporre non sono riducibili al puro livello neuronale, ma implicano sempre un’operazione eseguita a discrezione dello scienziato. In ogni modo, a livello di pura rilevazione empirica, non è dimostrabile, in maniera incontrovertibile, un rapporto di causalità tra l’azione morale A e l’attivazione cerebrale localizzata X (H.Jonas).

Con ciò, in linea di principio è data una risposta sufficiente ai quesiti di partenza.

Ma mi interessa assai di più aprire, col secondo passo, una pista di lavoro più ampia.

“Morale prima della morale”

Esiste un terreno comune da cui partire, nel rigoroso rispetto di ciò che è fede e quindi teologia e di ciò che è oggetto del sapere delle neuroscienze, per verificare quanta strada si può fare insieme?

Per quanto possa sembrare paradossale non pochi cultori di neuroscienze parlano di credenza. Gazzaniga, autore di un libro intitolato La mente etica, afferma che se ci dividono le nostre teorie morali e religiose, la mente etica ci unirà e ci salverà poiché «di fronte ad un conflitto morale reagiamo di fatto in modo molto simile guidato da reti neuronali o da sistemi di rinforzo comuni al nostro cervello». Egli conclude che «il nostro cervello vuole credere».

Una volta aperto il campo della credenza, bisogna però fare spazio a tutte le forme di credenza (A.Sironi).

Quando infatti questo concetto appare, come appare, nell’ambito della ricerca neuroscientifica, allora non vi si può escludere un nesso oggettivo con quello più preciso di fede, legato a qualunque autentica esperienza religiosa. Questa poi è esperienza elementare propria di ogni uomo quando affronta – più o meno esplicitamente – le inevitabili domande, espressioni del senso religioso, del “da dove vengo? dove vado?”, ma ancor più quando si pone la questione esistenzialmente decisiva: “Qualcuno mi assicura definitivamente?”.

In buona filosofia si dice che le domande ultime, quelle che secondo Comte non dovevano essere poste (quanta strada hanno fatto i saperi se oggi queste domande si impongono con forza ogni giorno proprio a partire da ricerche come le vostre..!) sono nello stesso tempo domande religiose. Quando si interroga sulle cose ultime la filosofia trapassa in religione e la ragione incontra, già all’interno del suo proprio orizzonte, la fede. Anche la fede cristiana, con il suo carattere gratuito e rivelato, non perde questo potente nesso con la ragione. Anzi si pone con la pretesa di essere, pur in tutta la sua discontinuità, in ragionevole armonia con essa.

L’espressione “morale prima della morale”(L.Boella), coniata nel mondo della neuroetica, dice il peso delle credenze anche per i cultori di questa disciplina. Al limite, quand’anche si intendessero le credenze come pure rappresentazioni mentali, fisicamente determinate in base ad una riduzione della mente ad aspetti funzionali di proprietà cerebrali, si finirebbe sempre per riconoscere una qualche inclinazione etica nell’uomo.

Il fatto di scoprirci biologicamente provvisti di un sistema neuronale rivela come «i meccanismi complessi e fortemente interconnessi che stanno alla base delle emozioni, dei valori e dei pensieri» (J.Illes e S.J.Bird) ci urgono a rapporti intersoggettivi.

Se mettiamo in campo il prisma della ragione con la sua pluralità di forme di esercizio, è conveniente riconoscere che le credenze neuroetiche, almeno in quanto aprono alla dimensione sociale, lasciano di fatto spazio all’esistenza di un altro polo della “morale prima della morale”. Sottolineo della morale prima della morale, che potremmo forse meglio definire con l’espressione esperienza morale elementare.

Potremmo sommariamente descrivere questo secondo polo dell’esperienza morale elementare riflettendo sul rapporto tra bambino e genitori. In esso si manifesta in modo paradigmatico l’esperienza dell’“essere accolto” nella vita. Le relazioni primarie costituiscono per lui i rapporti che lo custodiscono e attivano la sua capacità di esperienza e quindi di emozioni, valori e pensieri.

Esse svelano così, in ogni suo atto, il desiderio del bambino che il mondo sia per lui accogliente, armonioso, ricco di possibilità da scoprire e da utilizzare, ecc.; ma, insieme, dicono che tale desiderio è sorretto da un riconoscimento che lo attiva, lo rassicura, lo sostiene. È in forza del riconoscimento ricevuto che il bambino intrattiene rapporti di fiducia con il mondo e gli altri soggetti, che è reso capace di rapporti positivi e stabili con gli altri e con la realtà tutta.

Emerge una struttura dell’esperienza morale originaria articolata sulla connessione di desiderio-riconoscimento-relazione coinvolgente (comunione).

Se, ora, guardiamo all’esperienza morale di ogni soggetto ci rendiamo conto che essa si radica proprio in un desiderio di compimento di sé. Esso prende forma nelle inclinazioni, negli affetti originari, nelle emozioni e nei pensieri, a partire dalle relazioni primarie di riconoscimento, in cui, circolarmente, il desiderio acquista progressivamente coscienza pratica di se stesso e diventa capace di comunione con il mondo. È ragionevole poi pensare che, attraverso tali relazioni buone di riconoscimento che aprono alla domanda di senso (religioso), si attiverà l’imperativo morale e il nucleo normativo della Regola d’oro (C.Vigna).

Questa considerazione fenomenologica (in senso pieno) basta per dire che l’esperienza morale elementare (la morale prima della morale) possiede un carattere fortemente unitario, ma polare (duale).

Inevitabile apertura allo “spirituale”

La “morale prima della morale” o per meglio dire l’esperienza morale elementare può ben poggiare su credenze che hanno base neuronale empiricamente documentabili dalle neuroscienze (emozioni, valori, pensiero), ma essa, ad una ragione adeguata, rivela di articolarsi anche attraverso un altro polo che, in senso lato, possiamo chiamare spirituale. Nel rispetto dell’unità-duale (neuronale e spirituale) dell’esperienza morale fondamentale un discorso scientifico rigoroso non può escludere la necessità di una compiuta elaborazione di una teoria della libertà.

Sorge a questo punto una domanda. È possibile superare i due poli costitutivi dell’unità di questa esperienza morale elementare che inevitabilmente apre al senso religioso, in una sintesi che chiuda, una volta per tutte, in un sapere oggettivo, questa stessa polarità?

Un’analisi rigorosa ci costringe a dire di no.

Dal punto di vista delle neuroscienze è impossibile un sapere compiutamente oggettivante del cervello capace di spiegare tutto l’uomo. Anche nel caso, del tutto ipotetico e almeno oggi non ancora dimostrabile, che la mente possa essere ridotta a cervello.

Così pure la dimensione spirituale cui abbiamo fatto riferimento non è in grado, da sola, di afferrare la profondità ultima dell’uomo. Il paradosso dell’uomo consiste nella sua ec-centricità. Egli è capace di infinito ma essendo irrimediabilmente finito, non può com-prendere il mistero.

Nell’unità profonda del Self si dà quindi un’insuperabile polarità.

Irriducibilità della dimensione spirituale dell’amore

Per tornare rapidamente alla questione dell’amore, alla fine di questa breve incursione neuroscientifica sorge un’ulteriore domanda: che cosa questi studi sono in grado veramente di dirci a proposito dell’esperienza dell’affettività e dell’innamoramento umano? Equilibrati cultori della materia affermano che questi studi ci forniscono certamente qualche utile indizio neuroanatomico e neurofisiologico sui meccanismi e sugli schemi neuronali sottostanti a queste esperienze; ci indicano quali neurotrasmettitori sono coinvolti in alcuni momenti ricorrenti, mostrandoci però la solita incredibile complessità funzionale del nostro sistema nervoso centrale, e rimandandoci comunque alla complessificazione ulteriore che deriva dalla variabilità personale. Scopriamo inoltre che alcune aree cerebrali ancestrali sono più attive in individui innamorati che hanno a che fare con la persona amata, indicandoci come questo sentimento – o emozione a seconda di come venga considerato dalle diverse scuole di pensiero – sia profondamente radicato nella nostra storia biologica evolutiva (D.Denton).

Le spiegazioni adattazioniste esasperate invece ci lasciano sempre una impressione abbastanza sgradevole: quella di vedere – e qui ci richiamiamo a quanto afferma lo Spaemann – che le nostre esperienze fondamentali non vengono per nulla illuminate dalla spiegazione naturalistica: questa piuttosto le spazza via tutte.

La Fisher non sembra accorgersi di questo rischio, che a nostro avviso rende meno efficaci alcuni passaggi pure interessanti delle sue speculazioni. Tuttavia, l’antropologa sembra voler evitare una posizione neuro-riduzionista finale, quando ammette che nell’uomo il mistero della scelta di quel particolare compagno piuttosto che di un altro rimane neuronalmente insolubile.

L’insuperabile unità duale (anima-corpo) nell’uomo

Per giungere alla conclusione, torniamo ancora una volta alla domanda con cui abbiamo articolato la questione di partenza imposta sia dal senso comune che dal rigore scientifico: “Come è possibile che parti di materia priva di coscienza producano coscienza”?

Quand’anche si desse prova inconfutabile che il cervello produce la mente, in nessun modo si potrà escludere che questa scoperta indichi di più del solo superamento di ogni dualismo mente-cervello. Essa non potrà annullare il senso religioso, comunque lo si voglia intendere, alla cui base si trova l’esperienza morale elementare.

Ora, da un’accurata analisi del senso religioso si giunge ad inferire ciò che chiamiamo anima (spirito). A condizione di pensarla in termini di relazione sostanziale all’a/Altro, sia con la minuscola che con la maiuscola. L’anima, scriveva nel 1972 l’allora Cardinal Ratzinger, è «la dinamica di una apertura infinita che significa contemporaneamente partecipazione all’infinito e all’eternità. Tale dinamica non è un succedersi di fatti senza nesso… la dinamica è sostanza e la sostanza è dinamica».

L’unità-duale (non la dualità unificata) di anima-corpo è insuperabile.