VENEZIASi è  tenuto mercoledì 18 maggio, alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia (Isola di San Giorgio Maggiore), il quarto e conclusivo incontro di un ciclo dedicato a «Expo  e Chiesa: un dialogo aperto verso il 2015», promosso da Expo Milano 2015, sul tema “Abitare il mondo domani. Quale identità sociale?” . 

Qui di seguito il testo integrale dell’intervento pronunciato dal Patriarca (si segnala che in data odierna – 22 maggio 2011 – “IlSole24ore” ha pubblicato un commento a questo testo):

 

1. Le parole chiave di Expo 2015 e la crisi alimentare

La questione di come “nutrire il pianeta” – tema cardine di Expo 2015 – è divenuta questione dirimente non solo per capire come “abitare il mondo domani”, ma altresì per capire se domani ci sarà ancora un mondo abitabile.  

Il Vertice mondiale sulla sicurezza alimentare, svoltosi a Roma dal 16 al 18 novembre 2009, ha posto in maniera inequivocabile il problema della scarsità di risorse alimentari, a fronte di un numero sempre crescente di abitanti del pianeta.

Secondo non poche analisi la questione non riguarda ormai più solo la cattiva distribuzione delle risorse tra Nord e Sud del mondo, ma quella più radicale se ci saranno ancora risorse[1].

La scommessa del Memorandum Expo 2015-Fao è che siamo ancora in tempo per cambiare le cose, sebbene la situazione sia piuttosto grave. Secondo Jacques Diouf, Direttore Generale della FAO, la battaglia contro la fame, che colpisce più di un miliardo di persone nel mondo, «può essere vinta, ma sradicarla in tempi di crisi economica senza un rilancio del settore agricolo e rurale e un sostegno concreto ai 2 miliardi di piccoli agricoltori che rappresentano un terzo della Terra, è impensabile»[2]. È significativo che, nell’Angelus del 14 novembre 2010, anche Benedetto XVI abbia posto l’accento sulla necessità di restituire un’adeguata attenzione all’agricoltura[3]. Di qui la convergenza con Expo 2015, che tenta, per l’appunto, di intercettare questa sfida globale mettendo a punto una “rivoluzione sostenibile”, un modo diverso di abitare il mondo, che possa garantire a tutti un futuro degno dell’humanum che tutti abbiamo in comune e che tutti dovremmo difendere e promuovere.

Sono quattro le parole chiave che compongono il tema di EXPO 2015 “Nutrire il pianeta. Energia per la vita”: alimentazione, energia, pianeta, vita. Ciascuna forma di vita – è stato detto – ha bisogno di energia e l’energia viene fornita dall’alimentazione. A sua volta, il nesso vita-alimentazione incide sullo sviluppo del pianeta, unitamente all’interazione di una molteplicità di fattori naturali e antropici. Da questa circolarità complessa emerge allora quella che viene definita come la quinta parola chiave: la persona che, – si legge nel Memorandum citato – «con gli strumenti del suo vivere e del suo lavoro, contribuisce a trasformare in positivo o in negativo la natura nella quale vive».

L’emergere del riferimento alla persona all’interno del nesso vita-alimentazione-pianeta apre la possibilità di una riflessione antropologica in grado di evitare gli opposti estremismi che, di fatto, sembrano polarizzare gli atteggiamenti teorici e pratici nei confronti dell’ambiente. Da una parte, una diffusa tesi del dominio (solidale con una certa concezione non equilibrata della dinamica capitalistica e tecnologica) si relaziona all’ambiente secondo una logica in un certo senso predatoria ad esclusivo vantaggio della sola vita umana; dall’altra, per reazione, una sorta di “sacralizzazione” altrettanto indiscriminata della biosfera (tipica di certe tendenze “ecosofiche” attuali) propone un cosmocentrismo in cui si predica un diritto paritario alla vita per ogni forma di vita.

Al di là di queste tendenze, la centralità della persona consente di pensare un uso del pianeta responsabile e capace di cura. Vale però la pena di sottolineare come tale riferimento antropologico implichi un decisivo mutamento di paradigma in campo economico e tecnologico. E viceversa: non è pensabile una riformulazione dell’assetto economico-tecnologico globale senza mettere al centro, non solo a parole, la persona e i suoi legami sociali.

 

2. Ripensare il bisogno

È stato lo stesso Benedetto XVI a ricordare, in occasione del Vertice mondiale sulla sicurezza alimentare[4], il fondamentale risvolto antropologico della questione alimentare. Contrariamente alle visioni catastrofistiche, che spesso funzionano come pretesto per giustificare una pericolosa inerzia politica[5], il Papa ha riaffermato chiaramente «l’assenza di una relazione di causa-effetto tra la crescita della popolazione e la fame», come è dimostrabile anche «dalla deprecabile distruzione di derrate alimentari in funzione del lucro economico» (n. 2). Rifacendosi poi direttamente al n. 27 di Caritas in Veritate, il papa ha significativamente aggiunto che «la fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale. Manca, cioè, un assetto di istituzioni economiche in grado sia di garantire un accesso al cibo e all’acqua regolare e adeguato…, sia di fronteggiare le necessità connesse con i bisogni primari e con le emergenze di vere e proprie crisi alimentari…» (n. 2).  

Questo riferimento ai “bisogni primari” è fondamentale per capire che l’attuale crisi alimentare non implica soltanto una questione di tecnica istituzionale (questione che il Papa naturalmente non ignora affatto). È innanzitutto una questione di concezione della vita umana. Ecco perché ritiene prioritario «contrastare soprattutto l’egoismo, che consente alla speculazione di entrare persino nei mercati dei cereali, per cui il cibo viene considerato alla stregua di tutte le altre merci» (n. 2). Proprio questa riduzione del cibo a merce, a mero bene di consumo da fruire individualmente, appiattisce lo spessore umano del bisogno primario di alimentarsi, un bisogno che è invece sempre intrecciato con un bisogno di legame, di ospitalità, di convivialità. Solo se si capisce questa posta in gioco antropologica ha senso il richiamo successivo che Benedetto XVI fa alla solidarietà e alla cooperazione internazionale, e a tutte le altre necessarie strategie economiche e politiche di redistribuzione, che altrimenti resterebbero pie intenzioni[6].

C’è dunque una “ecologia umana” da pensare, prima di un’ecologia ambientale, dal momento che il degrado o meno dell’ambiente è strettamente connesso «alla cultura che modella la convivenza umana» (n. 9).

Per pensare un modello alternativo all’egoismo è necessario dunque ripensare la natura stessa del bisogno. Troppo spesso interpretato come diritto esclusivo al benessere, il bisogno è invece anzitutto segno di fragilità. In caso contrario il bisogno si trasforma in pretesa e diventa sorgente di dominio. Infatti, l’esperienza della fragilità non è risolvibile nella logica della dilatazione indefinita del consumo: niente di quel che consumiamo è in grado di rimediare la strutturale “mancanza” (bisogno) che caratterizza il modo umano di essere al mondo. Pretendere un soddisfacimento totale attraverso il consumo è un mito tecnocratico. Anche se sembra ormai aver sgretolato la sua stessa promessa questo mito viene riproposto incessantemente. È infatti chiaro che la pretesa di ricorrere al consumo indiscriminato ha un costo umano, oltre che ambientale, di incalcolabile portata, che sempre meno può condurre al soddisfacimento e alla felicità, nemmeno a quella dei pochi che ancora ne beneficiano.

 

3. La soddisfazione dei bisogni chiede il compimento integrale dell’esistenza

Il bisogno come segno di fragilità documenta invece la necessità di reinterpretare la questione cruciale della soddisfazione umana. Lo stesso fatto per cui l’uomo non può far fronte ai propri bisogni, se non con la mediazione di una cultura del bisogno, una cultura innanzitutto pratica, quella cioè della sua prassi ideativa e lavorativa, indica che il sistema dei bisogni umani dev’essere pensato come un sistema aperto oltre se stesso.

Del bisogno di cibarsi l’uomo fa un’arte culinaria, del bisogno di vestirsi fa uno stile d’abbigliamento e di relazione sociale, del bisogno di ripararsi fa un sapere architettonico e un modo di trasformazione dell’ambiente, ecc. Questo rivela che l’uomo in rapporto a specifiche situazioni di bisogno non risponde mai solo a reazioni preordinate, ma è sempre, in qualche misura, teso al “superamento”, al “progetto” sia mediante trasformazioni pratiche, sia mediante l’attribuzione di significati culturali a ciò che egli stesso fa.

In altri termini, è necessario riconsiderare la plasticità dei bisogni umani come espressione di una istanza antropologica che implica una duplice apertura dei soggetti umani a partire dai bisogni stessi. Da una parte, l’apertura di un’intelligenza inventiva, che in qualche modo domina, manipola, trasforma in continuazione i profili e i contenuti dei bisogni; dall’altra, l’apertura di una dimensione che possiamo chiamare di desiderio, che esprime la capacità di riformulare continuamente i bisogni. Qui il proprio dell’uomo si manifesta come facoltà di porsi, col desiderio appunto, al di là dell’ordine stesso dei bisogni, puntando a una condizione in cui tra l’essere nel bisogno e l’elaborazione dei bisogni vi sia un’ideale armonia, una condizione di pacificazione dinamica. Infatti ciò che muove l’uomo (e solo l’uomo) nell’affrontare i suoi bisogni è l’ideale di vivere in un modo equilibrato, integrato, giusto, pacifico.

È perciò evidente, a questo punto, che la soddisfazione umana implica l’apertura ad una prospettiva di compimento integrale dell’esistenza, che non può essere affrontata con una misura puramente quantitativa. Attitudine che purtroppo non di rado investe il modo di concepire l’economia e gli obiettivi della politica (che sovente è a rimorchio del modello utilitaristico dominante in campo economico). L’effetto, in termini antropologici, è stato ben evidenziato dal premio Nobel per l’economia Amartya Sen e dal filosofo Bernard Williams: le persone finiscono di fatto per non contare «più dei singoli serbatoi di petrolio nell’analisi del consumo nazionale di petrolio»[7].

Opporsi a questa concezione di “uomo-serbatoio” implica fare i conti con la mentalità oggi dominante secondo la quale l’uomo, per porre la propria identità, deve concepirsi in maniera puramente individuale, come uomo senza relazioni.

 

4. Quale identità sociale?

La corretta analisi del bisogno e della sua soddisfazione umana fa quindi emergere l’inadeguatezza dell’interpretazione moderna e contemporanea di chi sia il soggetto umano. Secondo la rappresentazione hobbesiana dello stato di natura, l’uomo ha come unico bisogno quello di sopravvivere e come unico oggetto di desiderio il potere quale mezzo per soddisfare il proprio bisogno. Dal momento che tutti si comportano secondo questi canoni, ne segue inevitabilmente un conflitto mortale. Questa concezione, variamente riformulata, è quella cui di fatto fa riferimento, più o meno consapevolmente, anche la scienza economica classica con il prototipo dell’homo oeconomicus. Essa, a tutt’oggi, ha un enorme peso nel regolare il mondo della produzione e del consumo. Questa è una visione non solo irrealistica ma anche ideologica, perché si presta facilmente a fare dell’uomo un protagonista solitario e conflittuale del mercato e un suddito isolato e docile dello Stato. Oggi lo rende poi di fatto un ingranaggio del meccanismo tecnocratico.

Al contrario, l’uomo è un essere originariamente in-relazione, è un io-in-relazione. A ben vedere lo stesso Adam Smith, padre dell’economia moderna, era di questo avviso. Non mi riferisco alla lettura stereotipata dello Smith del “birraio” e del “macellaio”, che troppo frettolosamente lo identifica come il vero Smith[8]. Penso allo Smith che ne La ricchezza delle nazioni si chiede esattamente da dove venga la “propensione allo scambio (propensity to truck)” e si domanda se per caso non dobbiamo supporre che essa dipenda da ragione e linguaggio, proprio i fattori che già Aristotele utilizza per giustificare la natura sociale del modo umano di abitare il mondo: «Se tale propensione – si chiede Smith – sia uno di quei principi originari della natura umana, dei quali non è necessario rendere ulteriormente conto; o se, come sembra più probabile, sia la necessaria conseguenza delle facoltà della ragione e del linguaggio, non è qui nostro compito indagarlo (Whether this propensity – si chiede Smith – be one of those original principles in human nature, of which no further account can be given; or, whether, as seems more probable, it be the necessary consequences of the faculties of reason and speech, it belongs not to our present subject to enquire)»[9].

Smith risponderà alla questione altrove, nelle Lectures on Jurisprudence, dove significativamente evocherà la naturale inclinazione di ogni uomo a persuadére, cioè – potremmo dire – a fidarsi dell’altro e perciò a fare società: «Se dovessimo indagare il principio mentale su cui si fonda questa disposizione allo scambio, è chiaramente la  naturale inclinazione di ogni uomo a persuadere (If we should enquire into the principle in the human mind on which this disposition to trucking is founded, it is clearly the natural inclination every man has to persuade)»[10].

Occorre allora compiere un passaggio fondamentale per riaffermare questa naturale inclinazione alla fiducia reciproca: occorre passare da un concetto di ragione ridotta a puro calcolo (tipica della visione hobbesiana, come si legge ne Il Leviatano) a un concetto di ragione come capacità di identificare e condividere ciò che è bene per l’uomo in quanto tale. È questa dimensione intrinsecamente comunicativa della ragione umana a dar conto del fatto che l’identità umana possiede intrinsecamente, e non solo contingentemente, un carattere relazionale, sociale. Del resto, la parola comunicazione, se non viene ridotta a mero trasferimento meccanico di informazioni, suggerisce la posta in gioco: contiene la voce munus, che significa sia “dono”, sia “compito”. Potremmo allora dire, riecheggiando il famoso passo aristotelico della Politica: non c’è bene umano personale che non sia un bene ricevuto in dono da altri e responsabilmente donato a propria volta. È su questo concetto impegnativo di Koinonìa che Aristotele fonda la città, il cui scopo non è la semplice sopravvivenza, come dirà Hobbes restringendo per l’appunto l’orizzonte della ragione, ma la vita buona che, non a caso, per Aristotele è – ad un tempo – del singolo e di tutti, oppure semplicemente non è.

Questa visione antropologico-relazionale domanda di riattualizzare il concetto di riconoscimento di hegeliana memoria. Come Hegel aveva ben compreso, la soddisfazione dei bisogni umani vitali non ha senso se non passa attraverso il più fondamentale desiderio di essere riconosciuti: l’attesa fondamentale di un soggetto umano è infatti quella di valere qualcosa per qualcuno. Senza questo riconoscimento del proprio valore umano, dice Hegel, l’uomo non diventa soggetto, ma rischia di accontentarsi di vivere come un animale (già Aristotele, in fondo, diceva la stessa cosa).

Si può allora concludere dicendo che il riconoscimento tra uomini è un bene primario. Il bene del riconoscimento non è un bene tra gli altri, uno tra i contenuti buoni che possono favorire il fiorire (flourishing) dell’esistenza umana, bensì è quel bene umano che è condizione di possibilità d’ogni altro bene umano in quanto umano. Infatti, se il riconoscimento da parte dell’altro è per il soggetto via di accesso al suo stesso essere persona, nessun altro bene sarà bene umano a prescindere da esso. Qualunque bene fosse fornito o raggiunto al di fuori di questo orizzonte, diventerebbe addirittura nocivo, come un frutto avvelenato. Questo ci fa capire una verità importante: ogni bisogno umano è sempre a due dimensioni. Se, infatti, da una parte, il bisogno è tale in rapporto ad una certa mancanza abbastanza chiaramente definibile, dall’altra è sempre accompagnato dal desiderio che tale mancanza e, soprattutto, il suo soddisfacimento rientrino nell’orizzonte della relazione tra soggetti.

Questa è la radice antropologica che dovrebbe regolare ogni strategia economica e politica, anche e soprattutto in relazione alla questione dell’abitare il mondo. L’abitabilità presente e futura del mondo non dipende solo dalla disponibilità di risorse, ma dall’orizzonte di riconoscimento reciproco entro cui le risorse verranno distribuite. Si capisce così l’insistenza di Benedetto XVI nel dire che non ci può essere vera cooperazione internazionale senza solidarietà e sussidiarietà, perché nessun aiuto umanitario, nessuna redistribuzione di ricchezza è veramente un bene se non onora/ospita l’umano che è comune a ciascuno di noi. E infatti, se il cibo, come qualsiasi altro bene, diviene merce, cioè non viene offerto anche e soprattutto come segno di una cura per il valore umano di chi lo riceve, può condurre all’ottundimento e al corrompimento, perché non è ad adeguata misura dell’uomo. La figura omerica del ciclope Polifemo, che non riconosce la legge dell’ospitalità [11] e perciò vive in modo ferino fuori del consorzio umano, diviene paradigma d’ogni dissoluzione barbarica della convivenza umana. Questa, al contrario, ha a suo fondamento la relazione come legame originario, in questo senso “religioso” (religio, re-ligatio), ed ha la fiducia come attitudine fondamentale.

Appare qui, nella giusta luce, l’apporto che anche oggi le religioni possono dare alla vita buona, che genera pratiche virtuose, all’interno di una società plurale come la nostra. Ciò mostra l’inadeguatezza di una concezione e di una pratica della laicità che pretendono di neutralizzare le religioni e le visioni sostantive. Probabilmente anche per riconoscere questa fondamentale religiosità è necessaria una forte riflessione intradisciplinare, soprattutto nelle democrazie occidentali. Anche la teologia, come diceva Habermas già nel 1975, è chiamata a giocare la sua partita. «Si vedono comparire delle tendenze – diceva infatti Habermas con lungimiranza a dir poco profetica –, tanto in tradizioni sociali quanto in tradizioni intellettuali, […] che rafforzano la nostra coscienza di essere entità empiriche dello stesso tipo di quelle che osserviamo nel rapporto oggettivante con la natura esterna – e niente altro. Se questa coscienza, che si può chiamare sia positivistica, sia, da un’altra prospettiva, pagana, si generalizzasse, allora dovrebbe trasformarsi anche l’identità del genere umano – forse anche noi, per esprimermi drasticamente, dovremmo cader morti». E, infatti, il postmoderno e consumistico “uomo-serbatoio di godimento” è esposto al rischio mortale della manipolazione tecnocratica. Ecco perché, dice ancora Habermas, «per rendere chiare a noi stessi le condizioni che rendono umana la nostra vita, forse non possiamo rinunciare ai teologi», nel senso preciso che il loro linguaggio «può mettere in moto quello che bisognerebbe mettere in moto per bloccare l’estendersi dei sistemi interpretativi auto-oggettivanti»[12].

La partita, in effetti, sembra proprio questa: o si trovano i modi (teorici e pratici) di riattivare la fiducia come risorsa generativa fondamentale del bene primario del riconoscimento, oppure nel mondo di domani si rischia di sopravvivere più che di vivere.

 

Note:
[1] Certo è che il dibattito è controverso. Il premio Nobel Norman Borlaug, padre della cosiddetta “rivoluzione verde”, è tra gli scienziati più pessimisti sulla possibilità di risolvere il problema “scarsità di risorse”. Questo tipo di interpretazione, peraltro, era già stato avanzato nel famoso report del 1972 The Limits to Growth, commissionato al MIT dal Club di Roma. La cosa fu abbastanza trascurata, nel senso che sembrava che l’aumento delle risorse disponibili fosse maggiore dell’incremento dei consumi. Già nel 1992, però, venne pubblicato un primo aggiornamento del Report, col titolo Beyond the Limits, nel quale si dimostrava che i limiti della “capacità di carico” del pianeta (limiti fissati nel report del 1972) erano già stati ampiamente superati. Un secondo aggiornamento, dal titolo Limits to Growth: The 30-Year Update, è stato pubblicato nel 2004. In quest’ultima versione, oltre all’esaurimento delle risorse, si fa riferimento alla degradazione dell’ambiente. All’opposto di questa visione catastrofistica, il premio Nobel Amartya Sen ritiene che non sia il cibo a mancare, ma il danaro per acquistarlo. Il che aprirebbe un orizzonte di possibili e doverose strategie politiche di perequazione.
[2] Jacques Diouf, Discorso in occasione del Forum “Private sector action to reduce food in security”, Milano, 12 novembre 2009.
[3] «La crisi economica in atto, di cui si è trattato anche in questi giorni nella riunione del cosiddetto G20, va presa in tutta la sua serietà: essa ha numerose cause e manda un forte richiamo ad una revisione profonda del modello di sviluppo economico globale (cfr Enc. Caritas in veritate, 21). È un sintomo acuto che si è aggiunto ad altri ben più gravi e già ben conosciuti, quali il perdurare dello squilibrio tra ricchezza e povertà, lo scandalo della fame, l’emergenza ecologica e, ormai anch’esso generale, il problema della disoccupazione. In questo quadro, appare decisivo un rilancio strategico dell’agricoltura. Infatti, il processo di industrializzazione talvolta ha messo in ombra il settore agricolo, che, pur traendo a sua volta beneficio dalle conoscenze e dalle tecniche moderne, ha comunque perso di importanza, con notevoli conseguenze anche sul piano culturale. Mi pare il momento per un richiamo a rivalutare l’agricoltura non in senso nostalgico, ma come risorsa indispensabile per il futuro».
[4] Benedetto XVI, Visita alla Fao in occasione della 36ª sessione della Conferenza Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, Discorso del Santo Padre Benedetto XVI, Palazzo della FAO, Roma, 16 novembre 2009.
[5] Dice infatti Benedetto XVI nel suo discorso: «Vi è il rischio cioè che la fame venga ritenuta come strutturale, parte integrante delle realtà socio-politiche dei Paesi più deboli, oggetto di un senso di rassegnato sconforto se non addirittura di indifferenza. Non è così, e non deve essere così!» (Ibid., n. 4)
[6] «Non bastano normative, legislazioni, piani di sviluppo e investimenti, occorre un cambiamento negli stili di vita personali e comunitari, nei consumi e negli effettivi bisogni, ma soprattutto è necessario avere presente quel dovere morale di distinguere nelle azioni umane il bene dal male per riscoprire così i legami di comunione che uniscono la persona e il creato» (n. 8).
[7] A. K. Sen – B. Williams, Introduzione: utilitarismo e oltre, in Id., Utilitarismo e oltre, NET, Milano 2002, 5-30; cit. 9.
[8] «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo di ricevere la cena, ma dalla loro considerazione per il proprio interesse (It is not from the benevolence of the butcher, the brewer, or the baker, that we expect our dinner, but from their regard to their own interest)», (Wealth of Nations, I.ii.z).
[9] A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776, edited by R.H. Campbell, A.S. Skinner and W.B. Todd, Oxford University Press, Oxford 1976 I.ii.2.
[10] Id., Lectures on Jurisprudence, 1762-63/1766, Edited by R.L. Meek, D.D. Raphael and P.G. Stein, Oxford University Press, Oxford 1978, 352.
[11] Cfr. Odissea, IX, 266-298: Polifemo invece di sfamare gli ospiti, se ne pasce, ribellandosi così con ferocia e arroganza alla legge divina dell’ospitalità.
[12] AA.VV., Il ruolo sociale della religione. Saggi e conversazioni, tr. it. di G. Cunico, Queriniana, Brescia 1976,  65; 79.