VENEZIA – Viene qui riproposta l’intervista fatta al Patriarca e apparsa su Gente Veneta in occasione della Pasqua.
A ciascuno di noi la Pasqua regala un pezzo di Cielo. Non è un’immagine, non è un sogno e neppure una poetica consolazione. E’ l’esperienza che fa chi celebra con fede la festa della Risurrezione di Cristo.
Nel giorno, cioè, in cui si annuncia il passaggio di Gesù dalla notte della morte al giorno della vita, ognuno di noi può, se vuole, sperimentare che non c’è separatezza fra vita e fede ma c’è, semmai, un fecondo legame. E, soprattutto, ognuno può godere di un anticipo di gioia celeste, che già ora consente di lenire i patimenti, dà un senso alle tribolazioni e rende più calde le soddisfazioni.
Come questo possa accadere lo spiega il Patriarca, riflettendo sul significato della festa alla cui vigilia ci troviamo.
Eminenza, nella vita di ogni giorno l’esperienza dei contrasti e della fatica, nel lavoro e in famiglia soprattutto, sono – sia pure in metafora – tante piccole morti in attesa di risurrezione. Ha senso dire che celebrare la Risurrezione di Cristo è avere una chance in più perché quelle piccole morti trovino risurrezione?
Certo perché lì abbiamo la caparra della risurrezione che accadrà a ciascuno di noi. Sono segni di credibilità della Risurrezione di Gesù; tanto che, se non ci fossero, ai nostri occhi la Pasqua si perderebbe nella lontananza del mito. Nella contemplazione dei misteri della vita di Gesù, infatti, noi dobbiamo sempre partire da un dato molto importante: è il Figlio di Dio che si fa uomo. Quello cristiano è un Dio che, nell’Incarnazione, è entrato a far parte della famiglia umana, si è rischiato con la storia, quella di tutti e quella personale di ciascuno. Se noi non potessimo goderne un anticipo già da ora il Paradiso – cioè lo stare per sempre con il Signore, per dirlo con una bellissima affermazione di San Paolo, non sarebbe credibile. Perciò realmente conviene seguire Gesù lungo il cammino della nostra vita terrena: andando dietro a Lui possiamo toccare con mano che la nostra esistenza diventa più autentica, più degna e più riuscita. Questa impostazione rende ragionevole partecipare in prima persona alle azioni liturgiche della Settimana Santa. La liturgia, infatti, è veder emergere, dal profondo delle nostre fatiche, dei nostri dolori e delle nostre gioie quotidiane, Gesù come il significato presente e liberatore, come la compagnia che ci guida fin dentro la contraddizione e ci aiuta a superarla.
L’acqua del Battesimo è segno pasquale e Gesù è sorgente d’acqua viva. Attorno a noi, già ora, scorrono tanti piccoli, silenziosi rivoletti d’acqua, cioè le numerose persone che quotidianamente incontriamo e che con pazienza e generosità costruiscono mattoni di bene. Non è forse che spesso le trascuriamo e tendiamo a vedere solo ciò che non va? Non è che rischiamo di non vedere, in primis nella nostra Chiesa, tanti segni di generosità e speranza?
Nella prospettiva cristiana non esiste più un culto ritualistico separato dalla vita. Come dice San Paolo nella Lettera ai Romani, usando una bellissima espressione, esiste ormai un «culto umanamente conveniente». Egli si riferisce all’offerta totale della propria vita. Per il cristiano nulla sta fuori dal culto: la fatica che una mamma deve fare per mettere insieme il lavoro e la famiglia, o quella di un figlio alle prese con i primi problemi affettivi, il dramma di molti nostri uomini e donne che perdono il lavoro, su su fino alle tragedie di Haiti e del Cile o alle bombe di Mosca, il terribile vagare dei bambini di strada o dei bambini soldato, la guerra, il martirio di sangue ai dei nostri fratelli cristiani…: nulla di tutto ciò è fuori dalla presa di Colui che è venuto a morire per noi. Ma si può dire di più, come fa Paolo con un’espressione estrema: Gesù è venuto a lasciarsi trattare da peccato proprio perché nessuno di noi fosse più solo. Egli ci è accanto anche dentro la più terribile delle contraddizioni, che non è soltanto la tragedia delle calamità naturali o del male fisico, ma è soprattutto il male morale. Allora davvero la Pasqua è speranza affidabile, davvero valorizza ogni segno di speranza che si accende nel nostro quotidiano. E Dio sa quanto ne abbiamo bisogno soprattutto oggi, in questa delicata e travagliata fase di inizio del nuovo millennio. Perciò guardare a Cristo risorto, partecipando all’azione eucaristica, produce un cambiamento di cuore e di mente che ci consente poi di vederne i segni efficaci pur nel limite del nostro essere pellegrini nel tempo, nei rapporti e nelle circostanze di ogni giorno.
Pasqua è la festa della gioia cristiana: che cos’è per lei, in una giornata qualunque, la gioia di essere cristiano?
La gioia di essere cristiani sta in quella frase potente e icastica che sempre mi colpisce ogni volta che la incontro nel Vangelo di Giovanni: <Deus prior dilexit>, Dio ci ha amato per primo. Io credo che per un cristiano – con il passare degli anni me ne rendo conto sempre di più – questa frase costituisca una sorta di sottofondo della coscienza e del modo con cui l’io affronta il reale. Come quando si mette della bella musica di sottofondo e poi si fa dell’altro. Tra i bassorilievi della cattedrale di Chartres, capolavoro del gotico francese, ce n’è uno, indimenticabile, con Dio Padre che tiene la mano sotto il mento di un uomo, inginocchiato davanti a Lui. Questa immagine mi accompagna da quando la vidi, ragazzo, per la prima volta. La gioia, per me, viene da lì, perché qualunque sia la natura della circostanza che mi viene addosso nel quotidiano, anche la più sfavorevole, questa presa non mi molla, non mi lascia mai. Questo è il principio della gioia ed ha una duplice funzione: anzitutto consente a ciascuno di noi di essere un co-attore nell’esistenza quotidiana; non il protagonista, che è Dio, ma un attore certamente sì. In secondo luogo ci consente di non smarrirci di fronte alla nostra contraddizione e al nostro peccato, che altrimenti ci frantumerebbero, perché l’io diviso è un io smarrito. La gioia viene da questa compagnia. Un po’ come quella che sperimentiamo ritrovandoci in famiglia o con gli amici, quando lavoriamo, anche duramente, per uno scopo che ci siamo prefissi: alla fine c’è sempre una componente di soddisfazione che, in senso nobile, è la gioia. Ora Pasqua, il passaggio di Gesù dalla morte alla vita, significa che la Sua compagnia personale e indistruttibile che ci guida al destino traccia il binario dell’esistenza. Un binario da cui, se lo vogliamo, alla fine non si deraglia.
E, d’altro canto, c’è una diffusività spontanea della gioia…
Perché la gioia è figlia dell’amore. Se è pensata nell’ottica di quello che i grandi medievali chiamavano gaudium, cioè il godimento definitivo, che dura per sempre, e non è pensata solo come piacere, una soddisfazione istantanea che finisce subito. La gioia può venire solo dall’amore. E l’amore per sua natura è contagioso, diffusivo.
Gli stranieri tra noi
Ricordiamoci, a Pasqua, dei nostri fratelli stranieri e del nostro essere figli di un unico Padre. Perché il giorno della festa cristiana, che indica la strada per la gioia, illumini il comportamento quotidiano e le scelte della società e della politica in vista di una buon convivenza nelle nostre città e paesi.
Lo suggerisce il Patriarca, ricordando che Pasqua è anche l’occasione per alzare lo sguardo sul nuovo volto che in questi anni le realtà urbane hanno assunto. Basta, d’altronde, pensare che nel solo Comune di Venezia vivono ormai quasi 30mila stranieri. Tantissime persone con cui viviamo gomito a gomito, non di rado in una sostanziale indifferenza.
Eppure sono essi che, proprio nei giorni della nostra festa, ci stanno osservando, magari anche per capire che significato diamo ai fatti religiosi della nostra tradizione. In realtà, ricorda il Patriarca, un primo distinguo va fatto pensando ai molti immigrati, perlopiù provenienti dall’Europa dell’Est, cattolici di rito orientale o ortodossi. Proprio questi ultimi, tra l’altro, quest’anno celebreranno la Pasqua nel nostro stesso giorno.
<Con tutti loro – afferma il card. Scola – ci riconosciamo fratelli. Una delle più belle sorprese della Sosta pastorale è avere avuto la possibilità di incontrare centinaia e centinaia di cristiani ortodossi, sia in terraferma che a Venezia, guidati dai loro sacerdoti. Con loro c’è In comune con loro abbiamo una partecipazione profonda al grande mistero pasquale:dalla bellezza della loro liturgia, che trapassa con facilità nella vita, noi abbiamo molto da imparare. Molti di loro sono entrati nelle nostre famiglie e nelle nostre case, a partire dalle cosiddette badanti, centinaia di donne che fanno un enorme sacrificio per aiutare le loro famiglie rimaste in Moldavia, in Romania, in Ucraina… Ma anche con i nostri fratelli musulmani, pur nelle radicali differenze di esperienza religiosa, abbiamo in comune la percezione della santità di Dio, che per tutti noi rappresenta una stella polare >.
Certo, il lavoro per giungere ad una piena integrazione sarà molto lungo, l’incontro sarà travagliato: <Speriamo che l’elemento di dolore, di sofferenza e di fatica che è contenuto nella parola stessa “incontro” – formata da due preposizioni di segno opposto, in e contro – non prenda troppi decenni. Tuttavia proprio la Pasqua, che rivela il volto misericordioso di Dio in Gesù, ci induce a confidare nella possibilità di trovare la strada di una convivenza pacifica. Certo, questa comincia qui da noi, all’interno delle nostre comunità cristiane, all’interno delle nostra società civile, attraverso una guida prudente e saggia da parte della Chiesa per quanto riguarda il compito di carità e di primo intervento, e da parte delle autorità costituite per quanto riguarda un progetto organico ed equilibrato relativo all’immigrazione e all’integrazione. Noi tutti, però, dobbiamo avere il coraggio di non fare gli struzzi e di guardare in faccia questo processo di mescolamento e di meticciato di civiltà. E dobbiamo lavorare nella convinzione che abbiamo un Padre comune – Gesù ha chiamato Dio Padre, Lui ce ne ha rivelato il nome – e tutti quindi siamo parte della famiglia umana>.
Questi sono, per il Patriarca, i “mattoni” su cui costruire l’edificio della buona convivenza: <Un’edificazione da realizzare sia pure dentro la fatica di comprendere lo stile di vita, la cultura e, là dove necessario, la religione degli altri, se non altro in vista del bene pratico comune derivante dal fatto che siamo insieme. Infatti troppo spesso noi trascuriamo che il primo grande valore della società plurale è il bene pratico dell’essere insieme; è invece conveniente che questo bene pratico diventi un valore politico, grazie a cui perseguire in modo intelligente il fine dell’essere insieme. Ecco quindi, anche nella festa di Pasqua, l’opportunità di pensare una nuova laicità, fatta di relazioni buone e di pratiche virtuose con cui, attraverso la narrazione reciproca, arrivare al riconoscimento comune>.
La Risurrezione
La questione, certo, è di una centralità tale da non poter essere esaurita in poche battute. Ma un segno il Patriarca lo sottolinea con particolare forza. Stiamo parlando della risurrezione di Cristo, di cui i Vangeli non raccontano molto e che non spiegano nei dettagli.
Come si può aderire a questo contenuto centrale della nostra fede, dinanzi a cui la ragione vacilla e il pensiero si sente più tremebondo? <Fra le tante – risponde il Patriarca – una cosa almeno qui si può accennare. Ci sono i grandi segni, su cui la Chiesa nella sua tradizione ha sempre insistito: il sepolcro vuoto, il lino piegato e, soprattutto, le apparizioni. Un uomo come noi che ha terribilmente patito, è stato ucciso sul palo ignominioso della croce – passo, morto, dice la tradizione della Chiesa, risorto, apparso e asceso: ecco cosa è accaduto a Gesù. Ma per me il dato più imponente, che tutti possiamo capire, può essere detto con questa domanda: come si spiega che un pugno di uomini semplici, letteralmente terrorizzati dopo la fine terribile del loro maestro, improvvisamente escono fuori dal cenacolo e si mettono a predicare e annunciare pubblicamente il grande evento di Gesù? E come si spiega che tutti daranno poi la loro vita per Gesù? Qualcosa dev’essere accaduto: L’hanno rivisto ed incontrato. Ecco, questa secondo me è una prova di fronte alla quale chiunque rifletta non può non inchinarsi. Poi, certamente, è possibile elaborare molte altre questioni, ma questo dato solido e sconvolgente non si può spiegare altrimenti che con la Risurrezione>.