È qui disponibile l’intervista che il settimanale Genete Veneta ha realizzato al card. Scola in occasione del Natale

Oggi si avverte, nella nostra società, un crescente interesse per le domande di fondo dell’esistenza. La questione del che cosa c’entri Dio con la vita si fa più viva, e più diffusamente se ne avverte la presenza. Un segno dei tempi?

Penso di sì. Sempre, nella storia dell’Occidente, i momenti di maggior travaglio hanno fatto emergere le questioni decisive. Il Natale ci dice una cosa fondamentale: se Dio si rende familiare a noi, noi possiamo in qualche modo riconoscerLo. E, se Lo riconosciamo, tutta la nostra vita cambia. Perché non si tratta solo di una conoscenza in più, ma di una conoscenza che cambia tutto. Il fatto che Dio si è reso a noi familiare in Gesù genera in ciascuno di noi delle conseguenze: o, per grazia, il riconoscimento convinto di fede. Oppure un’apertura, per quanto generica e non del tutto consapevole, a questa presenza trascendente che ci accompagna, come avviene in una sinfonia col tema musicale di fondo.

Una nota persistente, insomma…

Sì, questa è la eco che il santo Natale continua ad avere, aldilà del consumismo esagerato, aldilà delle riduzioni della festa ad una pausa di serenità dedicata agli affetti più intimi. Anche in questo sta il fatto che Dio è fedele, non abbandona nessun uomo, anzi, è accanto ad ognuno. E il tipo di riconoscimento che ogni uomo riesce ad avere di Dio – fosse pure sotto forma di maledizione a causa del male, o fosse pure sotto forma di bestemmia e di negazione – non soffoca la tenacia con cui Egli si fa presente e si fa sentire. Io credo che questo sia ben visibile nel modo più convinto con cui coloro che oggi praticano la fede partecipano all’Eucaristia e desiderano essere figli della luce, testimoniando lo splendore della verità nella vita quotidiana.

L’idea di un Dio che entra nella storia per un pertugio, la grotta di Betlemme, fa oggi tornare, insomma, la voglia di una ricerca di gioia e di serenità che non viene dalla voracità (di successo, di soldi, di immagine, di potenza, di io…) che invece ha contrassegnato anche gli ultimi anni trascorsi…?

Verissimo: mi viene in mente il primo prefazio dell’Avvento quando, introducendo il tema delle due venute di Cristo, dice che la prima è una venuta nell’umiltà per redimerci. I Padri della Chiesa arrivavano a dire: «Dio si è abbreviato». Addirittura taluni usano un verbo greco in cui l’“abbreviarsi” è legato all’“impoverirsi”: Dio si è impoverito, si è abbassato, si è svuotato, per parlarci la lingua che noi parliamo. Gesù non ha solo imparato l’aramaico, come tutti i bambini della sua terra; Gesù ha voluto imparare la nostra lingua di creature per farsi riconoscere ed esserci familiare. E questo è il segno più grande di umiltà che, nella cultura di oggi, nella cultura del travaglio, diventa una domanda di semplicità. Tutti percepiamo di avere bisogno, nella nostra vita, di una grande semplificazione. Una semplificazione che va dal superamento di un consumismo malaugurante (si dovrebbe usare la parola osceno, che ha proprio questo significato), al superamento di stili affettivi complicati, ambigui, spesso menzogneri, che fanno soffrire l’altro, non fanno vivere un amore che libera, ma ci spingono verso un amore che lega.

E se l’urgenza di semplicità portata dal Natale si volgesse al mondo del lavoro?

C’è bisogno di una nuova dignità nel mondo del lavoro. Penso alla sofferenza degli operai di Marghera o della Nuova Pansac di Gambarare di Mira, ma anche ai molti altri di cui non si ha altrettanto facilmente notizia. È necessario che torniamo ad apprezzare il bene del lavoro dignitosamente concepito, in funzione del sostentamento nostro e dei nostri cari, il lavoro che non punta all’eccesso né all’accumulo. Da qui la necessità di moralizzare le regole della finanza e di adoperarsi perché l’impresa, grazie al lavoro di tutti e all’uso equilibrato del capitale e del profitto, sia fattore prezioso di costruzione del bene comune. Ugualmente occorre che la vita sociale – come avviene nelle nostre terre, che hanno una società civile ricchissima – sia sempre di più espressione di solidarietà, di accoglienza e di legalità. Insomma, quest’urgenza di semplicità è realmente uno dei messaggi fondamentali del Natale. Un Bambino che fa venire in mente la tenerezza dell’innocenza: tutti abbiamo bisogno di innocenza.

D’altronde questa urgenza di semplicità è apportatrice di serenità…

Non per nulla, infatti, la liturgia e la grande tradizione ecclesiale legano la semplicità del Natale alla pace. Il grande tema della pace emerge da lì: non può non essere connesso al continuo superamento della tentazione dell’uso squilibrato del potere, a cominciare dai rapporti primari, a tutti i livelli – dal potere che il papà e la mamma hanno sul figlio e viceversa, fino al potere economico, sociale, politico e militare. Non possiamo, in questo momento, non pensare alla tragedia delle troppe situazioni di guerra e di miseria. Perciò la parola pace deve essere mantenuta sempre in tutta la sua estensione, ricordando che senza semplicità ed umiltà, senza una vera conversione dei rapporti, non c’è pace.

Il Natale è ponte fra Cielo e terra, quindi un’alleanza, una garanzia di pace. Cos’ha da dire il Natale ai mass media, che – come ha detto Benedetto XVI pochi giorni fa – hanno una crescente inclinazione a dare spazio al conflitto, alla contraddizione, al negativo, a ciò che separa piuttosto che a ciò che unisce?

Il messaggio cristiano è, lo ripeto, il messaggio dell’innocenza. Questa è la testimonianza più radicale. L’autoimmolazione di Gesù l’Innocente, imitata dai martiri, è offerta totale di sé a noi uomini affinché pratichiamo il bene. C’è un nesso inestirpabile fra pace, umiltà, innocenza, bene, vero e bello. E la prima condizione del vero è trattare l’altro con dignità, come uomo, rispettandolo nella sua libertà e chiamandolo al coinvolgimento. In questo senso il giudizio del Papa è stato per me molto prezioso, soprattutto là dove dice che non si può accettare che i mass media mettano programmaticamente gli uomini nella condizione di essere spettatori anziché attori. Se tu non coinvolgi l’altro nel dare la notizia e nel raccontare – e per questo devi tendere al vero, senza sostituire il vero con il verosimile – tu, poco o tanto, cedi alla logica della strumentalizzazione dell’altro, e quindi inevitabilmente finirai per andare alla ricerca del negativo e del “mostruoso”.

Il che è una logica autolesionistica: mi pare che i media non ne traggano alcun effetto positivo…

L’odierna crisi di vendita dei giornali viene imputata alla crisi economica, ma questo mi sembra un giudizio limitato. Ci sarebbe da riflettere, nel clima della semplicità e dell’innocenza del Natale, sull’equilibrio tra la libertà di stampa e la capacità di rispetto del lettore come co-attore.

D’altro canto il co-attore ha diritto a vedere praticata nei media la categoria dell’utile e del positivo, e non solo del negativo, no?

Essendo Cristo lo splendore della gloria del Padre, cioè mostrando Egli che Dio è realmente il protagonista della storia, occorre che la luce che ne riceviamo ci trasformi in figli della luce. Questa è, per me, la grande urgenza che deriva da questo santo Natale: stare dentro ogni rapporto senza accettarne la scontatezza, senza rendere il pregiudizio cronico. Accogliere il cambiamento del cuore che il Dio Bambino tende a suscitare in noi come principio di trasformazione di tutti i nostri rapporti, a partire da quelli che viviamo in modo più conflittuale.

Una trasformazione dei rapporti che induce anche ad un diverso e più intenso impegno a livello collettivo, cioè sociale e politico?

La eco di tutto ciò deve produrre in ogni uomo – e qui il cristiano entra in campo come cittadino, senza sdoppiarsi, ma senza generare confusioni di ambiti – la sequenza descritta: umiltà, semplicità, pace, edificazione del bene. A ben vedere la politica nasce per contenere la tentazione di violenza che purtroppo il male genera in ogni uomo. Deve quindi generare una passione per la philìa, cioè per l’amicizia civica. Bisogna che la politica non perda i suoi contenuti, raccolti nell’edificazione del bene comune. E il bene comune ha due caratteristiche: dev’essere tutto il bene, cioè il bene integrale, e il bene di tutti. E’ necessario che nella politica italiana questa visione oggettiva sia riportata al centro. La politica, diceva Paolo VI, è la forma più alta di carità. Credo sia urgente, in occasione del Natale, un richiamo ai cristiani ad impegnarsi seriamente nell’azione politica, a tutti i livelli, dal condominio al quartiere, al Comune e fino allo Stato: è uno dei modi con cui noi possiamo destare l’interesse per Gesù in senso nobile. Perché se viene meno l’interesse per Gesù, l’umano rischia di essere svuotato. Per questo Dio si è incarnato: per dare pienezza all’umano. Ma se viene meno l’interesse per l’uomo, Gesù resta una parola vuota.

Intervista a cura di Giorgio Malavasi