Proponiamo di seguito il testo della lectio magistralis che il Cardinale Angelo Scola ha tenuto in videoconferenza il 6 marzo 2021, su invito degli organizzatori della prima edizione del Seminario internazionale dell’Educazione cattolica di Santiago del Cile.

Tema del seminario: Dall’emergenza educativa a un patto educativo globale. Titolo della lezione: Cosa significa educare? La persona al centro di tutto il processo educativo.

Il testo è anche scaricabile in formato PDF ai seguenti link: italiano / español.

Immagine: Sarcofago di Stilicone, Basilica di Sant’Ambrogio, Milano


I Seminario internazionale di Educazione cattolica
Dall’emergenza educativa a un patto educativo globale 

Cosa significa educare?
La persona al centro di tutto il processo educativo

Sabato 6 marzo 2021

Card. Angelo Scola
Arcivescovo emerito di Milano

 

 

Saluto

Ringrazio Sua Eminenza il Card. Ricardo Ezzati e José Antonio Rosas Amor, rispettivamente Capelan e Director dell’Academia Latinoamericana de Lideres Catolicos per il gentile invito a proporre la Lezione inaugurale del I Seminario Internazionale di Educazione Cattolica, affrontando il tema: Cosa significa educare? La persona al centro di tutto il processo educativo.

 

Introduzione

Ho accettato volentieri l’invito, perché l’educazione è stata e rimane uno dei cardini della mia esperienza personale, sia come educando che come educatore. Io devo infatti alla forza educativa della Chiesa – soprattutto attraverso alcuni geniali sacerdoti – in particolare del Servo di Dio don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione – la progressiva scoperta della bellezza, delle ragioni e perciò della “convenienza” della fede alla vita. Riproporre lo stesso metodo educativo che mi aveva conquistato fin da ragazzo, è stato poi il terreno di base del mio sacerdozio, dall’ordinazione presbiterale fino al ministero episcopale, attraverso i diversi compiti che la Chiesa mi ha affidato. La passione educativa infatti può essere considerata il filo rosso che attraversa i miei anni prima come studente e come docente a Friburgo, poi come docente a Roma, il mio episcopato a Grosseto con la fondazione della Scuola Media e del Liceo diocesani, gli anni come Rettore della Pontificia Università Lateranense e come Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, quelli come Patriarca di Venezia con l’avventura dello Studium Generale Marcianum – un polo educativo unitario, ma articolato nei diversi gradi scolastici dalle scuole elementari fino ai Dottorati di ricerca –, e, finalmente, gli anni dell’episcopato milanese con la particolare cura, per citare solo un esempio, del nesso carità-cultura rispetto alla ricchissima messe di opere caritative della diocesi ambrosiana. Sono stato il primo a stupirmi quando ho visto lo spessore del volume La passione di educare[1] in cui taluni miei colleghi a Venezia hanno voluto raccogliere i miei interventi sull’educazione.

Da sempre la passione educativa è un tratto caratteristico del cattolicesimo italiano. L’esempio più conosciuto è, senza dubbio, quello di Don Bosco, ma non ne mancano altri significativi. Inoltre si deve ricordare che l’Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana del 2010 mise a tema l’educazione come contenuto portante del decennio appena aperto, facendo propria una preoccupazione che nel magistero degli ultimi due Papi ha registrato un crescendo.

Infatti se Benedetto XVI ha parlato di emergenza educativa [ riprendendo un’espressione usata per la prima volta in Italia dal compianto Cardinal Carlo Caffarra nel 2006 (che il 5 settembre 2006 si era rivolto così ai formatori del Movimento Cristiano dei lavoratori: «Sono sempre più convinto che ormai ci troviamo di fronte ad una vera e propria emergenza educativa») ], Papa Francesco, in occasione dell’incontro: “Global Compact on Education. Together to look beyond”, nel Videomessaggio del 15 ottobre 2020 è arrivato a parlare di catastrofe educativa.

Prima dell’esplodere della pandemia, con il Messaggio del 12 settembre 2019, il Papa per il lancio del patto educativo aveva invitato a «dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente». Da qui era nato il desiderio di «promuovere un evento mondiale nella giornata del 14 maggio 2020, con a tema “Ricostruire il patto educativo globale: un incontro per ravvivare l’impegno per e con le giovani generazioni, rinnovando la passione per un’educazione più aperta ed inclusiva, capace di ascolto paziente, dialogo costruttivo e mutua comprensione. Mai come ora, c’è bisogno di unire gli sforzi in un’ampia alleanza educativa per formare persone mature, capaci di superare frammentazioni e contrapposizioni e ricostruire il tessuto di relazioni per un’umanità più fraterna».

Se l’emergenza sanitaria ha costretto a cancellare l’evento mondiale organizzato, non ha affatto spento l’interesse e la mobilitazione intorno a una questione che da sempre appartiene al DNA del cristianesimo. Il Covid ha fatto da acceleratore/rivelatore di una situazione critica, di difficoltà nel processo della traditio, già presente nella società e nella Chiesa.

Assumendo tale situazione, il nostro Seminario ha voluto incominciare il suo percorso di riflessione individuando nella persona la magna quaestio dell’educazione. Una scelta indovinata perché, a mio parere, l’unica ultimamente in grado di proporre un cammino di superament0 dell’attuale frammentazione in cui è immersa la nostra società, tutti i saperi e, per finire, la persona stessa.

Tuttavia, non è una scelta ovvia né priva di problematicità. Per poterla assumere in modo fecondo è opportuno rileggere il riferimento del pensiero classico-cristiano alla nozione di persona in un’ottica precisa, quella dell’esperienza. Ovviamente sono costretto a farlo in termini del tutto sintetici e quindi inevitabilmente incompleti, concentrandomi sulla dimensione antropologica di principio, favorito in questo dai sette interventi che seguiranno il mio. Interventi che si soffermeranno su aspetti necessari e specifici in cui si articola la prospettiva antropologica, facendo prezioso riferimento alle Encicliche, alle Esortazioni e, più in generale, al Magistero di Papa Francesco.

 

Parte Prima
L’imporsi dell’emergenza educativa

 

  1. La “persona” in questione

Non è questa la sede per descrivere la genesi del concetto di persona –che, come sappiamo, è strettamente legata al cristianesimo –, ma non possiamo non prendere atto che questa categoria è stata in seguito ampiamente problematizzata.

Proprio alle soglie dell’epoca moderna, Pascal aveva fatto una constatazione che continua a mostrare la sua geniale attualità: «L’uomo supera infinitamente l’uomo»[2]. Quando l’Occidente – sull’onda delle clamorose scoperte della scienza empirica, dell’incontro col nuovo mondo, della Riforma, della nascita degli stati – si avviava a grandi passi sulla strada dell’affermazione dell’autonomia del soggetto, l’intuizione di Pascal avrebbe potuto conservare il prezioso guadagno che la rivelazione ebraico-cristiana, anche accogliendo l’eredità del pensiero greco, aveva assicurato a tutta l’umanità. Mi riferisco appunto alla fondazione dell’idea di persona. Il “pensiero” pascaliano avrebbe potuto consentire alla giusta inquietudine moderna circa il soggetto di trovare dimora nella realistica categoria di persona di matrice classica, urgendo, nello stesso tempo, quest’ultima ad una più pertinente formulazione.

Con tale categoria la rivelazione giudaico-cristiana, infatti, aveva approfondito, in modo inedito, la consistenza del soggetto umano. Wojtyla, riprendendo il citato argomento di Pascal, afferma: «L’uomo supera se stesso tendendo a Dio e così supera anche i limiti impostigli dalle creature, dallo spazio e dal tempo, dalla sua contingenza. La trascendenza della persona è collegata strettamente con il riferimento a Colui che (…) è infinito»[3].

L’epoca moderna però si è mossa, in prevalenza, in un’altra direzione. Ha creduto di potenziare il soggetto umano esasperandone a tal punto l’autonomia da rinunciare alla comunione con il Creatore e con il Redentore.

Di fatto le principali strade intraprese dal pensiero moderno, nelle sue diverse e talora contraddittorie varianti, hanno condotto inesorabilmente a trasformare la constatazione di Pascal nell’ingiunzione di Nietzsche: «L’uomo è qualcosa che deve essere superato»[4]. Da qui il passo all’affermazione che occorre abbandonare del tutto il soggetto sarà assai breve.

Io non so se l’appellativo post-moderno sia il più adatto a descrivere l’attuale frangente del pensiero ma, per stare al nostro tema, devo constatare che dalla morte del soggetto – secondo l’espressione cara allo strutturalismo francese degli anni ‘60 e ’70 dello scorso secolo e a tutti gli epigoni del nichilismo di ascendenza heideggeriana – siamo passati oggi a quello che si denomina la fine del soggetto. Né risulta convincente il tentativo del cosiddetto “pensiero debole” (Lyotard, Vattimo) di legittimare questa fine considerandola una chance positiva in vista di un futuro meno violento e totalitario[5]. Il dramma dell’umanesimo ateo[6], acutamente tratteggiato dai due interventi di Sartre[7] e di Heidegger[8] sul tema, ha infatti un epilogo obbligato: la rimozione del soggetto stesso.

Tuttavia, come spesso la storia documenta, i veti ideologici posti alle questioni insopprimibili dal cuore dell’uomo non funzionano. Infatti paradossalmente la questione del soggetto torna oggi prepotentemente alla ribalta in modo del tutto inedito e impensato. A trascinarvela è lo strapotere del connubio scienza-tecnologia[9]. La tecnologia attuale, assai diversa dalla tecnica tradizionale, si configura come un ambiente finalizzato a se stesso, che sempre meno risponde a bisogni esterni, ma procede, secondo autonome leggi di permanenza e di evoluzione, verso il conseguimento di fini interni[10]. Scienze e tecnologie, come è evidente nel campo delle biotecnologie e dell’intelligenza artificiale, definiscono i propri obiettivi esclusivamente a partire dalle loro intrinseche possibilità[11].

In questa prospettiva si capisce bene perché si arrivi a negare la verità che l’uomo è persona (Singer, Hoerster)[12], per sostituirla, con enfasi faustiana, mediante l’affermazione che «l’uomo è solo il suo proprio esperimento» (Jongen)[13]. Abbandonando l’idea classica del soggetto-persona, l’uomo intende concepirsi come puro prodotto di se stesso. Come evitare, a questo punto, l’allarmante interrogativo messo a tema dagli organizzatori di questo incontro: può oggi la persona essere ancora al centro del processo educativo?

Per rispondere affermativamente a questa domanda è necessario approfondire la categoria classica di persona – come san Giovanni Paolo II ha richiamato con forza nella Fides et ratio[14] –alla luce delle questioni implicate nel pensiero moderno-contemporaneo relativo al soggetto, a cominciare da quello del rapporto verità-libertà. Aggiungiamo subito che questo laborioso compito non può essere ridotto alla mera riproposizione dello stesso pensiero classico, neppure nelle sue più elevate e insostituibili punte espressive (Platone, Aristotele, Plotino, Agostino, Anselmo, Tommaso). In questo compito siamo solidali con il faticoso cammino che certi “laici” stanno compiendo nei vari ambiti del sapere, soprattutto in quello filosofico.

 

  1. Persona ed esperienza

Una via per approfondire la categoria di persona, facendosi carico degli apporti del pensiero moderno e contemporaneo, è possibile a partire da un’icastica e sapiente affermazione di Karol Wojtyla in Persona e atto: «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza dell’uomo»[15]. È l’incrollabile convinzione che l’esperienza comune ad ogni persona in ogni tempo e luogo, nella «sua sostanziale semplicità», supera qualunque «incommensurabilità» e qualunque «complessità»[16].

Questa esperienza è in grado di giungere alla conoscenza adeguata della persona a partire dal fatto irriducibile che l’uomo agisce e «l’atto costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela… sperimentiamo il fatto che l’uomo è persona, e ne siamo convinti, perché egli compie atti»[17]. Nel pensiero wojtyliano il soggetto, modernamente inteso, è quindi efficacemente collocato nell’orizzonte di un ripensamento della categoria di “persona”: «nella misura in cui cresce il bisogno di comprendere l’uomo come persona unica in sé e irripetibile, e soprattutto – [ in tutto questo dinamismo, proprio dell’uomo, dell’agire (dell’atto) e dell’accadere ] – nella misura in cui cresce il bisogno di comprendere la soggettività personale dell’uomo, la categoria dell’esperienza acquista il suo pieno significato, e questo è un significato-chiave»[18].

Il linguaggio della persona in azione dice che l’uomo, singolare intreccio di natura, grazia e libertà, è sempre storicamente situato. È la storia lo spazio in cui risuona la domanda “Dove sei?” rivolta dal Creatore ad Adamo. Come Adamo ogni uomo è chiamato a rispondere. Come? Decidendo per il Creatore in ogni atto di libertà. Il Creatore non cessa così di coinvolgerlo. Per la rivelazione giudaico-cristiana la storia incomincia dall’azione del Dio Creatore che entra direttamente sulla scena del dramma per suscitare e coinvolgere tutti gli altri agonisti a partire dal proto-agonista Gesù Cristo[19]. E lo fa per smentire quello che l’avversario, il diavolo, aveva insinuato: che si potesse affermare l’uomo negando Dio (cfr. Gen 3, 4-5). Nella storia l’esperienza comune dell’uomo diventa così decifrabile[20]. E lo diventa proprio in quanto chiamata rivolta alla libertà finita dal Mistero trascendente. Il Mistero genera la persona nella sua natura costitutiva (anima-corpo), immergendolo nel dinamismo io-tu a partire dalle relazioni parentali (uomo-donna), che lo aprono all’appartenenza ad un noi (individuo/persona-società/comunità)[21]. La manifestazione piena di questo triplice carattere originario dell’esperienza comune si dà nella rivelazione che Gesù Cristo (Persona) fa della Trinità (comunione di Persone) attraverso la Chiesa (popolo nuovo)[22].

Questa antropologia si rivela inoltre particolarmente adeguata a cogliere lo spessore morale dell’esistenza[23]. L’ethos della persona in azione, infatti, è originario perché la decisione della libertà partecipa all’istituirsi dell’esperienza stessa che si dà, simultaneamente, in tutte le sue dimensioni: teologica, ontologica, gnoseologica ed etica[24].

Tenendo presente questa rilettura della centralità della persona a partire dall’esperienza, possiamo ora affrontare i cardini del tema educativo.

 

Parte Seconda
Il patto educativo

 

  1. Rendere possibile un’esperienza integrale

«La cosa più importante nell’educazione non è un “affare” di educazione, e ancora meno di insegnamento»[25]. Così Jacques Maritain, andando al cuore della questione educativa, individua l’inquietante, eppure appassionante, paradosso di cui ogni vero educatore è ben consapevole. E, subito dopo, ne indica la ragione: «L’esperienza, che è un frutto incomunicabile della sofferenza e della memoria, e attraverso la quale si compie la formazione dell’uomo, non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso»[26].

Per quanto abbiamo già detto prima la categoria di esperienza – assunta nella sua integralità, una volta sgombrato il campo da ogni riduzione psicologico-soggettivistica del termine – è il primo cardine della proposta educativa, ma l’esperienza garantisce il processo educativo se garantisce lo sviluppo di tutte le dimensioni di una persona fino alla loro realizzazione integrale, e nello stesso tempo documenta in atto tutte le possibilità di connessione attiva di quelle dimensioni con tutta la realtà[27]. Riferirsi alla realtà in tutte le sue dimensioni significa riferirsi ad ogni genere di esistente, esistente umano, esistente storico, esistente vitale, esistente cosmico.

Una tale posizione implica un giudizio positivo sulla realtà. Il reale, al di là delle tensioni drammatiche che lo attraversano, al di là della sua stessa contingenza, è un bene. L’educazione, per dirla con la celeberrima definizione di Jungmann, è un’introduzione alla realtà totale («eine Einführung in die Gesamtwirklichkeit») proprio perché la realtà totale corrisponde – [“corrispondenza” è la parola che traduce la cum-venientia dei medioevali] – al cuore (alle necessità, alle evidenze e alle esigenze costitutive) dell’uomo. Il reale è per il bene dell’uomo. Quindi è un positivo.

Come si rivela questa percezione della positività del reale? Si rivela a partire dalla sua natura di avvenimento: ogni manifestazione del reale si presenta come evento (dal latino e-venio) che interpella la nostra libertà provocandola ad aderire. Ciò comporta che il reale si offre all’uomo come intelligibile e questi è in grado di ospitarlo in sé. (Esempio: Monte Rosa). [ Questa è la dimensione integrale dell’esperienza comune. ]

Questi rapidi accenni sono sufficienti per giustificare l’affermazione che l’educazione è una relazione che introduce tutto l’io a tutta la realtà. E – lo ripeto – questo è possibile perché la realtà è intelligibile – si offre all’io – e perché l’io è capace di ospitarla, di farla propria. In questo senso l’educatore, cercando di introdurre l’educando in un’esperienza integrale della realtà, lo conduce progressivamente a coglierne la natura propria, quella cioè di essere, in tutte le sue manifestazioni, segno del Mistero. E per i cristiani il volto del Mistero è quello del Padre che ci è stato rivelato per la potenza dello Spirito da Gesù.

L’educazione è sempre, quindi, l’introduzione di tutta la persona a tutta la realtà. Di tutto l’io, in tutte le sue evidenze, le sue necessità costitutive, le sue esigenze e le sue istanze. Attraverso la sua capacità di giudizio, di affezione e di azione, la persona è in grado di accogliere tutta la realtà.

Così, in quanto comunicazione di un’esperienza integrale di questa natura, l’educazione è anzitutto una questione di relazione. Relazione tra educatore ed educando che non sono mai due individui separati, ma sempre immersi in trame sociali di rapporti e in relazione con tutta quanta la rete di circostanze che sono parte costitutiva della realtà. [ A questo proposito, dico sempre che l’io del terzo millennio deve concepirsi come un io-in-relazione – lo scrivo come una parola sola –. ]

L’educazione significa per finire prendersi cura dell’altro, pro-vocare la sua libertà ad ospitare tutta la realtà in un confronto appassionato a 360°.

 

  1. Natura inter-personale dell’educazione: tradizione e autorità

Una simile impostazione, ad un tempo teoretica e pratica, mette subito in campo la natura inter-personale del processo educativo.

Educatore ed educando sono considerati come liberi soggetti coinvolti in un rapporto modulato dall’imporsi del reale[28].

Imprescindibile punto di partenza perché l’educando possa percorrere la strada dell’integralità dell’esperienza è la cura che le generazioni adulte si prendono delle nuove generazioni. Un’immagine efficace di cosa sia questa cura legata alla catena di generazioni, è quella dell’Eneide dove Enea lascia Troia distrutta con Anchise sulle spalle e il figlioletto Julo per mano. L’educazione vede all’opera la catena di generazioni. Come giustamente è stato affermato, l’educazione domanda quindi tradizione.

Essa consiste, come diceva Blondel, in un luogo di pratica e di esperienza[29], vissuto e proposto in prima persona dall’educatore alla libertà sempre storicamente situata dell’educando. Pertanto la tradizione rettamente intesa è per sua natura aperta a tutte le domande che incombono sul presente. È innovativa. Essa, in quanto fenomeno di generazione, garantisce, come diceva Giovanni Paolo II, la “genealogia” della persona e non solo la sua “biologia”. Assicura la piena ed autentica esperienza di paternità-figliolanza, imprescindibile condizione per suscitare civiltà[30].

Educare significa comunicare il senso del vivere, cioè un significato per la vita e, nello stesso tempo, dare una direzione alla vita. Il che non si ottiene solo attraverso la trasmissione di nozioni, ma si ottiene soprattutto attraverso relazioni buone e pratiche virtuose.

 

Oggi la nostra capacità educativa, anche nella Chiesa, è in difficoltà perché sono in difficoltà le relazioni buone, la vita buona.

Pensiamo al famoso dialogo di Gesù col “giovane ricco”: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Gesù aveva fatto una premessa: «Perché mi chiami buono? uno solo è buono». Aveva già spostato il discorso dal bene – valore astratto – al buono (bene incarnato). E quando l’interlocutore gli dice, lasciando Gesù ammirato, che già osserva tutti i comandamenti, cosa fa? Gli propone delle relazioni buone, gli dice: «Vai, vendi tutto e dallo ai poveri» – una nuova relazione tra gli uomini – «e poi seguimi» – una relazione con Lui –”.

Il primo fattore educativo è quindi la relazione buona: lo impariamo da bambini. Infatti è attraverso le relazioni buone primarie – col papà, con la mamma, con i fratelli – che siamo introdotti a intuire che cosa è “buono”. La relazione buona mi spalanca la promessa del compimento e mi fa vedere la strada per realizzare quel desiderio di pienezza (felicità) che mi trovo dentro. Allora io, forte di questa promessa, accetto anche il precetto e la legge, perché la voglio raggiungere. Quindi: l’educazione domanda senso della vita, relazioni buone e pratiche virtuose. Le relazioni sono buone perché sono fatte di pratiche virtuose.

Ma relazioni buone e pratiche virtuose sono il contenuto dell’esperienza umana. Come ha intuito Péguy «le crisi dell’insegnamento non sono crisi d’insegnamento, ma denunciano crisi di vita e sono crisi di vita esse stesse». Questo è il punto: oggi non è in crisi l’insegnamento, anzi le tecniche d’insegnamento si sono iper sviluppate, le possibilità di apprendimento sono molto più ampie oggi che vent’anni o trent’anni fa. Ciò che è in crisi è il senso della vita e la pratica della vita, l’esperienza della vita. Dove non esiste una vita adeguata, nella sua dimensione personale e sociale, non si può comunicare nulla di sostanziale e quindi non si può educare.

Si capisce allora il peso che nella proposta educativa ha il fattore dell’autorità, termine di cui è bene non dimenticare il significato etimologico più accreditato. Il sostantivo latino auctoritas deriva dal verbo latino augere che significa “far crescere”. La persona autorevole, infatti, è quella che incarna l’ipotesi esistenziale di lavoro, cioè il criterio adeguato di sperimentazione dei valori. L’autorità, quando è autentica, è l’espressione efficace della trama di relazioni comunitarie in cui si origina la mia esistenza. In questo caso l’educando sente l’autorità come profondamente con-veniente alla sua persona.

 

  1. Natura inter-personale dell’educazione: partecipazione e rischio

L’integralità dell’esperienza, nel rispetto della natura del reale, non è garantita solo dal fatto che l’educando sia chiamato al paragone con una proposta vivente e personale veicolata dalla tradizione – sempre segnata dal reale come avvenimento – attraverso una figura autorevole. È necessario che l’educando si impegni personalmente con tale proposta.

È importante capire che in questo passaggio non è semplicemente in gioco un metodo educativo più adeguato, o più consono con le legittime aspirazioni di “autonomia” dei giovani. La portata dell’affermazione a questo proposito è molto più profonda. Si tratta di riconoscere la struttura ultima del rapporto tra la persona e la realtà. In forza di tale struttura, se la libertà dell’uomo non si mette in gioco, gli è negato l’accesso alla verità. Infatti, se la verità è l’evento in cui realtà e persona si incontrano, non esiste, ultimamente, possibilità di conoscere il reale (verità) senza una decisione. Un grande esegeta, Heinrich Schlier, afferma in proposito: «Il senso ultimo e peculiare di un evento, e quindi l’evento stesso nella sua verità, si apre solo e sempre ad una esperienza che s’abbandoni ad esso e in questo abbandono cerchi d’interpretarlo» e aggiunge: «Un evento si palesa a chi partecipa all’esperienza di esso».

Così l’inevitabile rischio dell’educazione apre l’educando alla massima creatività.

A questo proposito, fissati i cardini della proposta educativa, è necessario fare una considerazione sulla lettura più comune che della libertà si dà nel nostro tempo.

Infatti, la libertà è oggi sempre più identificata con uno dei suoi aspetti, certamente molto importante ma non esauriente. Mi riferisco alla libertà di scelta. Limitarsi ad essa è riduttivo, poiché la libertà deve fare i conti con altri due fattori.

Senza dubbio l’io, lungo tutto il suo cammino storico, fa leva sulla capacità di scelta, ma non può prescindere dal fatto di essere situato in un corpo personale: è una creatura che si trova dentro delle inclinazioni e degli orientamenti. Pensiamo alle inclinazioni più ovvie, quelle che in un certo senso abbiamo in comune con altri esseri viventi come gli animali: per esempio il bisogno di cibo, o di sonno. È chiaro che la persona né mangia né beve come gli animali, e questo dice chiaramente che la libertà c’entra. Ma l’io non può prescindere dal fatto che si trova dentro delle inclinazioni che precedono l’atto della scelta, e che la orientano. C’è una dimensione primaria della libertà di cui l’uomo deve farsi carico: l’inclinazione.

Ma, altro dato innegabile, la nostra libertà è spalancata sulla realtà totale, all’infinito. Questa è la ragione per cui noi non siamo mai soddisfatti delle singole scelte. E questo perché il nostro desiderio supera sempre la singola scelta. Infatti attraverso le singole scelte l’infinito ci chiama sempre più su, progressivamente ci attira a sé.

Ebbene è come se nella società di oggi il primo fattore – le inclinazioni – e il terzo fattore – l’attrazione dell’infinito – fossero rimossi. Oggi la libertà è ridotta a libertà di scelta.

In più, ci troviamo con un’ulteriore riduzione all’interno di questa libertà di scelta. Proprio perché gli altri due elementi sono stati di fatto eliminati, non più presi in considerazione, spesso si riduce la libertà di scelta al puro fatto di scegliere, senza metterla in relazione con la cosa buona che si sceglie, con ciò che sceglie. È come se si affermasse la libertà per il mero fatto di scegliere, quasi indipendentemente dal contenuto della scelta. La libertà è spesso ridotta di fatto allo scegliere per scegliere. Questo, ovviamente, rende molto problematico il processo educativo.

L’educazione non può non implicare sempre un processo che permetta alla persona di assumere e giocare la sua libertà secondo l’integralità dei fattori costitutivi (inclinazioni, capacità di scelta, attrazione dell’infinito) che la caratterizzano.

 

  1. Conclusione: il dia-logo educativo

Come abbiamo, sia pur sommariamente, descritto finora, l’educazione si attua nel rapporto tra l’educatore e l’educando sempre situati in un contesto interpersonale comunitario. Potremmo quindi definire l’educazione come un dialogo tra libertà.

Martin Buber, che con Ebner e Rosenzweig è annoverato tra i cosiddetti maestri del pensiero dialogico, afferma che l’autentico dialogo è uno «scambio profondo con il reale inafferrabile»[31]. Il dialogo come ambito educativo costituisce sempre uno scambio tra l’io personale (l’educatore che propone e si propone), e il tu personale (l’educando che viene introdotto alla realtà totale). Scambio che è reso possibile dalla stessa realtà che non è mai meccanicamente afferrabile. È immersa nel Mistero. Non esiste vero dialogo senza che si mettano in gioco la libertà dell’educatore e dell’educando nell’incessante paragone con il reale. Se mancasse uno solo di questi fattori, il trittico dell’educazione verrebbe inevitabilmente meno. Se manca la libertà, integralmente giocata, sia dell’educatore sia dell’educando, il dialogo diventa solo un monologo; se manca l’immersione nella realtà è preclusa la strada all’esperienza che è il cuore di ogni educazione.

 

L’esperienza, il cui contenuto è sempre l’incontro tra realtà e libertà al servizio del quale si pone la relazione educatore-educando, mostra con chiarezza la centralità della persona nel processo educativo. Un patto globale per l’educazione in grado di far fronte all’urgenza in cui si trovano le nostre società è chiamato a riconoscere questa centralità della persona, colta nel contesto storico in cui vive. Essa sola garantisce ed esalta la libertà di educazione.


 

[1] Cf. A. Scola, La passione di educare. Scritti del Cardinale Angelo Scola sull’educazione, l’università e la cultura, a cura di A. Peratoner, Marcianum Press, Venezia 2012.

[2] B. Pascal, Pensieri 122.

[3] K. Wojtyla, Segno di contraddizione, Gribaudi, Milano 20012, 28.

[4] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in Id., Opere scelte, a cura di L. Scalero, Longanesi, Milano, 19642, 242-43: «Quando Zarathustra venne nella città più vicina, che sorgeva accanto alla foresta, vide molta gente radunata sul mercato; poiché era stato annunziato che un uomo avrebbe ballato sulla corda. E Zarathustra così parlò al popolo “Io vi insegnerò cos’è il Superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri fino ad oggi hanno creato qualcosa che andava al di là di loro stessi: e voi invece volete essere la bassa marea di questa grande ondata e tornare ad esser bestie piuttosto che superare l’uomo? […]Che cos’è la scimmia per l’uomo? Qualcosa che fa ridere, oppure suscita un doloroso senso di vergogna. La stessa cosa sarà quindi l’uomo per il superuomo: un motivo di riso o di dolorosa vergogna Ecco, io vi insegnerò a diventare Superuomini; il Superuomo è appunto quel mare, in cui si può perdere il vostro grande disprezzo».

[5] In proposito cfr.: D. Antiseri et Alii, Le sfide del secolarismo e l’avvenire della fede, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 1996; Id., Teoria della razionalità e ragioni della fede, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994.

[6] Cfr. H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Jaca Book, Milano 1992.

[7] Cfr. J.-P. Sartre, L’existencialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1946.

[8] Cfr. M. Heidegger, Über den Humanismus, Klostermann, Frankfurt 1959.

[9] Fides et ratio 5: «Senza dubbio la filosofia moderna ha il grande merito di aver concentrato la sua attenzione sull’uomo (…) I positivi risultati raggiunti non devono, tuttavia, indurre a trascurare il fatto che quella stessa ragione, intenta ad indagare in maniera unilaterale sull’uomo come soggetto, sembra aver dimenticato che questi è pur sempre chiamato ad indirizzarsi verso una verità che lo trascende. Senza il riferimento ad essa, ciascuno resta in balia dell’arbitrio e la sua condizione di persona finisce per essere valutata con criteri pragmatici basati essenzialmente sul dato sperimentale, nell’errata convinzione che tutto deve essere dominato dalla tecnica».

[10] Cfr. F. Botturi, Le implicazioni antropologiche dell’innovazione tecnologica, in Aa.Vv., Parabole mediatiche. Fare cultura nel tempo della comunicazione, in «Notiziario Servizio nazionale per il Progetto culturale» 19 (2002) 26-31.

[11] Cfr. A. Scola, Quale vita? La bioetica in questione, Mondadori, Milano 1998.

[12] Cfr. P. Singer, Practical Ethics, Cambridge University Press, Cambridge 19952; N. Hoerster, Utilitaristische Ethik und Verallgemeinerung, Alber, Freiburg 1971.

[13] Cfr. M. Jongen, Der Mensch ist sein eigenes Experiment, in «Feuilleton. Die Zeit» 9 agosto 2001, 31.

[14] Si vedano ad esempio i nn. 48, 91, 98-99.

[15] K. Wojtyla, Persona e atto, a cura di G. Reale e T. Styczen, Rusconi, Santarcangelo di Romagna 1999, 53.

[16] Ibid., 45.

[17] Ibid., 53.

[18] La soggettività e l’irriducibilità dell’uomo, in Id., Perché l’uomo, Mondadori, Milano 1995.

[19] Basti pensare alla riflessione di Giovanni Paolo II intorno al tema del principio nelle sue Catechesi sull’amore umano, cfr.: Id., Uomo e donna lo creò, Città Nuova, Roma 19872, .33-43.

[20] «Il tempo in realtà si è compiuto per il fatto stesso che Dio, con l’Incarnazione, si è calato dentro la storia dell’uomo. L’eternità è entrata nel tempo: quale “compimento” più grande di questo? Quale altro “compimento” sarebbe possibile?» Tertio Millennio Adveniente 9.

[21] Si tratta di ciò che Balthasar chiama le polarità costitutive, cfr.: H. U. von Balthasar, Teodrammatica t. 2, Jaca Book, Milano 1982, 327-370.

[22] Cfr. A. Scola, Hans Urs von Balthasar: uno stile teologico, Jaca Book, Milano 1991, 114-117.

[23] «L’essenza della “moralitas” sta nel fatto che l’uomo in quanto uomo diviene buono o cattivo mediante l’atto. È dunque una realtà totalmente antropologica, personalistica ed al tempo stesso assiologia (…) Anche per questo il dovere morale in sé richiede in ultima analisi un’interpretazione ontologica perché il dovere proprio dell’uomo, è di essere buono “come uomo”», K. Wojtyla, L’uomo nel campo della responsabilità, Bompiani, Milano 2002, 77.

[24] «Soltanto l’azione che presuppone come agente la persona – e abbiamo visto che solo tale azione merita di essere chiamata “atto” – ha un significato morale. Per questo motivo la storia della filosofia è teatro del perenne incontro tra l’antropologia e l’etica», Id., Persona e atto, 53.

[25] Cfr. J. Maritain, Per una filosofia dell’educazione, La Scuola, Brescia 2001, 86.

[26] Ibid., 87.

[27] Cfr. L. Giussani, Il rischio educativo, SEI, Torino, 1995, 19.

[28] Cfr. A. Scola, Ospitare il reale, PUL-Mursia, Roma 1999.

[29] Cfr. M. Blondel, Storia e dogma, Queriniana, Brescia 1992, 103-137.

[30] Cfr. A. Scola, Genealogia della persona del figlio, in Pontificio Consiglio per la Famiglia, I figli: famiglia e società nel nuovo millennio. Atti del Congresso Teologico-Pastorale Città del Vaticano 11-13 ottobre 2000, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, 95-104.

[31] M. Buber, Dialogo, in Id., Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, 206.