L’appuntamento settimanale con il cardinale Angelo Scola ci porta a riflettere sul ruolo della famiglia nell’integrazione delle sempre più ampie comunità di immigrati nel Paese. Ogni sabato l’arcivescovo di Milano propone una meditazione in vista dell’Incontro mondiale delle famiglie, in programma nel capoluogo lombardo dal 30 maggio al 3 giugno, un appuntamento che sarà una «profezia dell’uscita dal tunnel» ha sottolineato ieri Scola in una conferenza stampa. Negli otto interventi già pubblicati, Scola ha trattato il profilo sociale ed economico della famiglia, il suo ruolo e il suo compito educativo, il dialogo fra generazioni, il rapporto con il mondo del lavoro, con quello del fisco e l’importanza della cura reciproca.
di Angelo Scola
Accurate indagini statistiche riferiscono che già nel 2009 le famiglie residenti nel nostro Paese con almeno un componente straniero erano più di due milioni e quelle interamente composte da stranieri erano più di un milione e mezzo. Dati rilevanti, che sottolineano come, anche in Italia, i complessi rapporti tra eventi migratori e realtà familiari meritino ormai di essere approfonditi con attenzione. Di un tema tanto ampio e articolato, non riuscirò naturalmente a cogliere e a proporre in queste poche righe se non alcune sfaccettature, utili però – a mio avviso – per cominciare almeno a suscitare una qualche riflessione.
Una prima constatazione si impone con evidenza: nella maggior parte dei casi alle spalle di un singolo adulto che emigra c’è, e rimane, una famiglia. La scelta di chi parte interpella e sfida profondamente la rete di relazioni umane in cui la persona è stata fino a quel momento fisicamente inserita. Ciascuno dei suoi cari può infatti posizionarsi diversamente, anche in maniera critica, rispetto all’evento. In altre situazioni è la famiglia stessa, con decisione unanime, ad affidare a uno dei suoi membri il compito di andare, fare fortuna e poi tornare. O ad incaricarlo di preparare nel nuovo Paese le condizioni per una successiva migrazione più ampia, magari soltanto di moglie e figli, o di altri più numerosi parenti. Non sono rari nemmeno i casi in cui la decisione di espatriare prende origine dal desiderio di allontanarsi da una situazione familiare compromessa, di riscattarsi da vincoli oppressivi, oppure addirittura da un’esplicita espulsione dalla propria rete familiare. Questi sintetici esempi dicono bene come dietro ad ogni progetto migratorio ci possa essere una famiglia che fa il tifo, che trema, o che al contrario è indifferente o avversa, con importanti e prevedibili conseguenze. Sentirsi sostenuti e incoraggiati dai propri cari aiuterà, infatti, a muovere con maggiore tranquillità e sicurezza i primi passi in un paese straniero. Al contrario un’esperienza personale negativa nell’ambito delle relazioni affettive più strette potrebbe non facilitare subito un’integrazione serena. Anche dopo l’iniziale tentativo di insediamento, le relazioni familiari originarie continuano per lo più ad orientare attivamente la storia di chi è partito. La tecnologia attuale, consentendo scambi anche quotidiani attraverso il telefono o la rete con la maggior parte delle nazioni del mondo, facilita e rinforza questo fenomeno.
Analizzando la storia delle migrazioni, i risultati di indagini qualificate ci portano a constatare che, quando a trasferirsi sono le famiglie unite e non i singoli individui, l’integrazione è facilitata. Per quanto la qualità dell’accoglienza incontrata nel paese straniero possa essere determinante, già la stessa organizzazione familiare, con la sua capacità di avvicinare le differenze, di accogliere le novità dei mutati ambiti di vita e di integrarle con i preesistenti sistemi di valori, rappresenta un passo decisivo verso questa meta. Essa facilita l’avviarsi delle forme di mediazione su cui si fondano i processi d’inculturazione e realizza le premesse indispensabili per una convivenza pacifica, su uno stesso limitato territorio, d’individui di diversa provenienza etnica. Se dunque si contribuisse a conciliare e a rendere il più possibile coerenti i progetti migratori con le esigenze fondamentali dei nuclei familiari, indubbi vantaggi ricadrebbero sull’intero tessuto civile.
Anche gli effettivi rapporti tra le famiglie immigrate e i contesti sociali dei paesi d’accoglienza non devono essere valutati in maniera troppo semplicistica. Prendiamo in considerazione, al proposito, una variabile importante, costituita dalle religioni di appartenenza. Indagini del 2009-2010 ci dicono che tra i migranti che hanno raggiunto il nostro Paese, la componente musulmana rappresenta il 28,2%, quella cattolica il 25,7% e quella ortodossa il 24,6%. Ebbene, è vero che le famiglie provenienti da culture e società non occidentali possono continuare a subire il fascino dei valori di riferimento delle loro comunità d’origine e restare soggette a una forte pressione dei loro codici e delle loro tradizionali regole di vita. È altrettanto certo però che esse sono spesso in grado di modellare attivamente queste influenze e decidere, entro un certo margine, come poterle inserire all’interno dell’universo di valori che caratterizza la loro nuova esistenza quotidiana. Le dinamiche di interazione vanno quindi colte nella loro complessità: le famiglie possono diventare ponti fondamentali tra i migranti e le culture che li accolgono, oppure ridursi a fortezze impermeabili a qualsiasi tipo di dialogo.
Accenno infine soltanto a due ulteriori sfide, impegnative ed urgenti, con cui il nostro Paese dovrà presto misurarsi: il ricomporsi dei nuclei familiari dei migranti e l’ingresso nella società italiana delle loro giovani generazioni. L’auspicio, anche in questo caso, non può che essere quello di evitare soluzioni frettolose e sommarie. Elaborando interventi e misure di sostegno adeguati, la famiglia, riconosciuta come risorsa, dovrà essere valorizzata quale soggetto attivo di vita buona.