E’ disponibile l’intervista che Alberto Laggia ha realizzato per Famiglia Cristiana del 5 Luglio al cardinale Scola in occasione del Comitato Scientifico Internazionale della Fondazione Oasis.
“Che l’Islam faccia paura è un dato di fatto. Un timore che nasce dalla non conoscenza dell’altro, dall’ignoranza del contenuto della religione altrui. Ma se c’è un modo per superare la paura dell’islam, questo si chiama dialogo». Sono parole del presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, cardinale Jean-Louis Tauran. E l’occasione è stata un contesto davvero speciale di dialogo: l’incontro annuale, svoltosi a Venezia il 22 e 23 giugno scorsi, del Comitato scientifico internazionale della Fondazione Oasis. L’organismo, voluto dal patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, quest’anno ha messo attorno a un tavolo una settantina tra studiosi e rappresentanti delle Chiese cristiane sparse nel mondo, ma anche esponenti e intellettuali musulmani, per confrontarsi sul ruolo della “tradizione” nella fede cattolica e islamica. «Lo scopo di Oasis», spiega il cardinale Scola, «è creare una rete di rapporti tra cristiani di Oriente e d’Occidente, aperti alla realtà musulmana, per conoscerla, ben consapevoli che la dimensione interreligiosa è intrinseca alla fede. L’oggetto del nostro lavoro, però, non è direttamente il dialogo interreligioso, ma la lettura del processo di “meticciato di civiltà”. Vogliamo imparare dalle comunità cristiane che vivono in Paesi a maggioranza musulmana e che si confrontano da secoli con l’Islam».
Cosa si intende con l’espressione “meticciato di civiltà”?
«Quando parlo di meticciato non intendo un progetto politico da perseguire, ma un processo storico in atto, che è sotto gli occhi di tutti; una congiuntura da orientare. Dico questo perché il termine rischia di scandalizzare qualcuno, evocando tra l’altro fenomeni equivoci come quello del sincretismo. Per me è un orizzonte esplicativo di una grande mutazione sociale in atto, che provoca il cristiano ad andare fino in fondo alla verità della propria esperienza. Accettare tale processo significa accettare la storia; senza rinunciare al proprio volto, alla propria identità, ma lasciandosi provocare a darsi e dare le ragioni del nostro essere cristiani».
L’attività di Oasis non rischia di riproporre l’ennesimo dibattito teorico su come fermare l’islam?
«Non si tratta di stabilire in astratto quale strategia attuare per contenere l’islam. Al contrario, ci dobbiamo interrogare su questioni concrete che oggi non sono più eludibili».
Quali, per esempio?
«Quella del rapporto tra accoglienza e legalità. Che si debba accogliere lo straniero è fuori discussione; oltretutto sarebbe antistorico e privo di prospettive scegliere altrimenti. Il problema, casomai, è il come e il quanto. Ma ciò non può essere deciso a tavolino dalla politica, se non come estremo rimedio nel caso di grave emergenza. Questo rapporto dovrebbe essere costruito dalla società civile. Non è possibile, allora, che in nome della paura si cancelli quanto è parte essenziale della tradizione giudaica e cristiana circa l’ospitalità. Il meticciato, lungi dall’abolire la nostra tradizione, ci costringe, invece, a giocarla nel presente».
– Mai come oggi, però, risulta vincente il richiamo a categorie come quella di sicurezza e di identità “contro”. E agitare la paura del diverso diventa un fattore determinante anche in contesti politici elettorali…
«La paura dev’essere sempre considerata con attenzione, compresa, ma non strumentalizzata. Tra le ragioni della nostra paura c’è il fatto che noi occidentali ci siamo adagiati su una forma di benessere spesso superficiale, egotistico, rinunciando a “trafficare i talenti” che la tradizione cristiana ci ha messo a disposizione. Come diceva Eliot, ci siamo “impagliati”. Il meticciato ci provoca a ridiventare attori del nostro destino. E la categoria dell’identità entra in campo proprio a questo livello: non come qualcosa di statico da difendere, ma come libertà personale e comunitaria che non si stanca di cercare l’incontro con l’altro, che si mette in gioco anche pagando di persona».
Qui dobbiamo fare i conti con il nostro deficit di testimonianza…
“Sì. Lo si vede bene se analizziamo la questione educativa. Il rapporto fra la tradizione e l’oggi si gioca nella catena delle generazioni. E proprio qui sta il difetto dell’europeo contemporaneo: noi procreiamo poco, ma ancor più dimentichiamo che generare non significa solo procreare, ma prendersi cura delle nuove generazioni comunicando un “senso”, una direzione di vita, rispondendo all’ineludibile magna quaestio che ogni bambino rappresenta per il fatto stesso che viene al mondo, direbbe sant’Agostino. In questo ambito per noi occidentali è suonata da tempo la sveglia».
Tutto ciò comporta anche scelte concrete. Giusto?
«Certo. Come sta educando la Chiesa? Che ne è della scuola e dell’università? E delle politiche sociali a sostegno della famiglia? Che ne è della solidarietà? Possiamo ancora tenere fuori del dibattito il fatto che un miliardo di persone nel mondo soffrono la fame? Ci si emoziona davanti alle immagini terribili che ci mostra la Tv, ma poi ci si mette il cuore in pace con i respingimenti».
Cosa significa tutto questo per le comunità di credenti?
«Accettare la sfida del passaggio obbligato dalla “convenzione” alla “convinzione”. Una sfida che esige di riproporre in modo efficace alle nuove generazioni un’esperienza adeguata di comunità cristiana a cui un credente si senta di appartenere perché lì trova la vita. Un luogo del quale si possa dire: “vieni e vedi”. Comunità “segnavia” che testimonino che si può vivere secondo virtù e che, per esempio, la castità, la sobrietà di vita, la condivisione del pane rendono più bella la vita».