Celebrazione Eucaristica
in occasione del 50° anniversario di matrimonio di
Lella e Riccardo Cocchia
Liliana e Angelo Agostoni
Anna e Gianni Micheli
Marina e Sandro Dolci
Mariangela e Alberto Gianola

 Domenica 8 settembre 2019, ore 15.00
II domenica dopo il martirio di san Giovanni il Precursore
Is 5, 1-7; dal Sal 79 (80); Gal 2, 15-20; Mt 21, 28-32

 Lecco, Chiesa di Santa Caterina “Istituto Airoldi e Muzzi”

Omelia di S.E.R. Card. Angelo Scola

In occasione di questa significativa festa – il 50° di matrimonio di Anna e Gianni, di Liliana e Angelo, di Mariangela e Alberto, di Marina e Sandro e di Lella e Riccardo – la Liturgia ci fa il dono di letture assai appropriate, così che la Parola di Dio, benché letta nel ritmo stabilito dal suo susseguirsi, parli a noi a partire da questo gesto profondo di comunione e di festa.

Infatti le parole del profeta Isaia compongono un inno che è considerato da tutti – almeno dagli esperti – tra i più belli dell’Antico Testamento. è lo stesso inno che subito si incarica di decifrare nella vigna il simbolo dell’esperienza dell’amore. «Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna» (Lettura, Is 5,1).

Seguendo poi lo svolgersi dell’inno, riconosciamo tutta la forza di un simbolo nuziale prezioso che certamente tocca i livelli del Cantico dei Cantici, di molti Salmi per giungere fino al vertice del Vangelo di Giovanni («Io sono la vite e voi i tralci», Gv 15,1). Il Padre pianta la sua vigna – ultimamente il riferimento è a Gesù – se ne prende cura con un lavoro assiduo, premuroso, infaticabile. E poi è come se si mettesse in attesa. Si coinvolge in maniera piena e totale, e aspetta poi che la libertà dell’altro aderisca.

 

Carissimi, così avete fatto voi in questi cinquant’anni. Avete declinato l’amore tra voi, l’amore per i vostri figlioli e per i vostri nipoti secondo questo grande tema della cura che desta e ridesta, che aiuta la ripresa, che rinnova l’energia del cuore e della mente… in una parola che si dona.

E l’avete fatto nella buona e nella cattiva sorte, scoprendo così che ultimamente per chi ama Dio, per chi non si rivolta – come drammaticamente ci mostra la seconda parte dell’inno – anche ciò che sembra cattiva sorte, alla fine, porta dentro una linfa di bene. E costruisce, edifica, fa un popolo come oggi qui possiamo vedere.

Ma noi che, almeno nelle intenzioni e al di là dei nostri peccati, non abbiamo voluto rovesciare questo dono, dove abbiamo poggiato la nostra forza in questi cinquant’anni? La domanda è sempre la stessa a 17/18 anni o a 100, come succede ormai sempre più spesso.

Qui emerge la potenza dell’Epistola, tratta dalla Lettera di Paolo ai Galati che in una celebre omelia Papa Benedetto, allo stadio di Verona nel 2006, riassunse con insuperabile efficacia nell’espressione “io ma non più io”. Paolo arriva ad affermare: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me». Non mi aspetto la mia giustizia o il mio bene dalla Legge in quanto legge, ma la aspetto dall’amore di Gesù che mi sostiene e a cui intendo configurare la mia esistenza.

 

Questo voi, nel bene e, talora almeno, nell’incertezza e nella fragilità, l’avete voluto fare. E questo è ciò cui noi dobbiamo tendere sin dall’infanzia, quando i papà e le mamme qui presenti si impegnano con sacrifici perché realmente il figliolo sia immerso, sin da piccolissimo, nella realtà totale. Così che il vivere di Cristo non si riduca a qualcosa di estrinseco e sia facilmente messo in discussione nella turbolenta adolescenza.

Io, ma non più io. Non son più io che vivo: noi, fino dall’inizio, dal Battesimo dall’Eucarestia dai Sacramenti dalla Parola di Dio dalla fede vissuta siamo stati educati in questa prospettiva. È qualcosa di inimmaginabile, di potentissimo ciò che Gesù fa per noi. Nella Sua morte e nella Sua risurrezione trascina a tal punto ciascuno di noi – se non si rivolta – da immedesimarlo a Sé e riportarlo a Sé ogni volta che si allontana. Noi attraverso il Battesimo moriamo con Lui e risorgiamo con Lui e così nell’evento eucaristico riviverlo ogni domenica e se possibile ogni giorno.

 

Pensando un poco al gesto di oggi, mi veniva alla mente che tra noi nessuno meglio di Gianni[1] ci indica questa prospettiva. In questa sua situazione di veglia non responsiva è come se Dio l’avesse messo davanti al cammino che ci resta (non importa se molto lungo, come quello di tanti, o molto breve, come quello di qualcuno tra noi) per chiunque, ma soprattutto per noi anziani

È come se egli ci anticipasse nel cammino verso quel Paradiso che non è un luogo ma è la vita stessa della Trinità che ci tiene nel suo grembo, come già tiene Gesù Risorto con le sue piaghe e Maria Santissima assunta nella sua carne. Così che la morte non è più davanti a noi, almeno tentativamente, come lo sbarrarsi delle porte di un carcere di vita mondana, ma è l’inoltrarci gioioso verso l’abbraccio della Trinità.

Noi cristiani, infatti, aspettiamo la fine del mondo nella Trinità. Ci interessa relativamente quello che pur la scienza dice, cioè che fra qualche miliardo di anni questa terra è comunque destinata a scomparire. Non è questa per noi fine del mondo. La fine del mondo è l’amore bruciante della Trinità in cui l’io ma non più io finalmente emerge in tutto il suo volto.

 

Mentre facciamo tutti il nostro augurio a questi nostri amici, alle loro famiglie di tre generazioni (presto magari per taluni saranno quattro), rinnoviamo il desiderio di essere il popolo formato dall’amore di Dio. Il Salmo responsoriale ci ha fatto dire: «La vigna del Signore è il suo popolo». La vigna del Signore siamo noi, noi come popolo.

Nell’attuale frangente storico che umanamente parlando sembra passare, almeno in Europa, da un travaglio profondo ad una sorta di declino, noi, consolati dalla storia di questi nostri amici e consolati da ciò che oggi la Chiesa ha posto davanti a noi come insegnamento, sentiamo questo tempo come un momento favorevole. Un grande filosofo francese ha appena scritto “Il momento cattolico”, un libro molto interessante sulla Francia di oggi. Leggendo la storia del suo paese, egli ha cercato di mostrare come in questo momento i cattolici possono dare un apporto originale alla rigenerazione di Parigi e della Francia. Ma in altri termini (bisognerebbe avere il tempo per costruire un’analisi) si potrebbe dire la stessa cosa anche per l’Italia.

Dato che una nazione non vive senza un universale, cioè senza un senso, senza un significato (il popolo cammina quando sa bene dove andare), i cattolici, al di là di tutte le costatazioni sociologiche, hanno veramente nella comunione una carta decisiva per contribuire all’edificazione di tale senso universale. Quella chance che anche voi adesso testimoniate e in mille modi offrite a quanti incontrate lungo il percorso della vostra vita, a questa città che noi amiamo. Come ogni città, essa ha tanti limiti e difetti, ma ha anche mille pregi come ci ha insegnato il grande Manzoni.

 

Riprendiamo ora il sacramento del sacrificio di Cristo, dopo esserci immersi come i discepoli di Emmaus, nel Suo racconto, nella Sua parola, e facciamolo con un cuore libero, con un cuore denso di offerta, facciamolo nella preghiera per i nostri carissimi festeggiati, facciamolo per la nostra città e per il nostro Paese.

La Chiesa trovi la strada di minori lamenti e di minori mondanizzazioni scegliendo decisamente la strada della comunione che è strada di edificazione.

 

 

Dopo la Benedizione

Ringraziamo questa preziosa Casa, che ha ospitato il gesto che insieme abbiamo vissuto, il Cappellano, le Suore e tutti gli operatori e mandiamo da qui un augurio a tutti gli ospiti di questa Casa.

Vivendo la comunione, di cui il gesto di oggi è l’attestazione, cioè vivendo non più per noi stessi ma per Colui che ha dato la vita per noi per farci risorgere, per rigenerarci nella definitività, noi creiamo un popolo che già si vede. Lo creiamo dilatando l’amore della sposa allo sposo, ai figlioli che sono la grande e rara benedizione del nostro tempo, ai nipoti – soprattutto a quelli che sono nel momento della scelta definitiva del loro volto, che senza saperlo sono al bivio dell’adesione a Gesù piuttosto che della sua dimenticanza, quelli dell’età più delicata – dilatando questa comunione agli anziani, bisognosi di aiuto, di soccorso, di cura, minacciati nella loro dignità, anche nel nostro Paese (vedremo cosa succederà i prossimi giorni a questo proposito).

Non importa se questo popolo è fatto di 50, di 5.000 o di 50 milioni, importa che le radici siano vive e che i germogli crescano.

Impariamo a guardarci sempre con gli occhi di questo amore, sentiamoci veramente la vigna del Signore e comunichiamo con semplicità di cuore a tutti, anche a chi ci fosse nemico, questo gusto pieno della vita.

[1] Un amico in situazione di veglia non responsiva da maggio 2007.