VENEZIA – Si avvia verso il termine l’excursus cominciato lunedì 11 giugno in preparazione alla festa del Redentore 2011 durante il quale sono stati proposti, in questi giorni, alcuni estratti dei discorsi pronunciati dal 2003 ad oggi, quasi a ripercorrere un percorso che si chiuderà domenica 17 luglio 2011 con l’ultima celebrazione del Redentore presieduta dal card. Scola.
Qui di seguito alcuni passaggi del discorso pronunciato il 20 luglio 2008, “La famiglia italiana fonte di progresso”, e di quello proposto l’anno successivo (19 luglio 2009), “L’umana sofferenza e l’opera del Redentore” (su questo sito sono disponibili anche i testi integrali):
“La famiglia italiana fonte di progresso”
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In un contesto sociale in rapida e spesso caotica trasformazione, divenuto più “liquido” come dicono gli studiosi, bisogna porre un fondamento solido, come i pali su cui da secoli si reggono gli edifici della nostra mirabile Venezia.
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E la famiglia è proprio uno dei fattori che fanno la differenza. È vero che sono sempre più numerose le coppie che scelgono di formare una famiglia al di fuori del vincolo del matrimonio. Tuttavia in Italia tale fenomeno non solo è ancora abbastanza esiguo ma rappresenta assai spesso un passaggio verso il matrimonio, più che un’alternativa allo stesso. Da noi il tasso di divorzio è tra i più bassi d’Europa. Pur mutando il proprio ruolo sociale, la donna italiana di oggi, che lavora di più fuori casa, dichiara che matrimonio e maternità sono al primo posto tra le sue aspirazioni. Infine, nonostante i cambiamenti demografici, i legami intergenerazionali sono molto intensi e le reti di solidarietà familiare si rafforzano: più della metà degli italiani che hanno i genitori viventi abita con entrambi o almeno con uno dei due. Non solo: allontanarsi dai genitori in generale non significa allentare i contatti, anzi. La famiglia d’origine ha un ruolo di supporto molto importante e fondamentale, in un contesto caratterizzato da una carenza nei servizi e da misure politiche ed economiche per molti aspetti ancora deficitarie.
Non possiamo, tuttavia, ignorare che i rapidi e profondi cambiamenti della mentalità e dei comportamenti e la presenza di diversi stili e modalità di convivenza, sollecitino con forza una domanda radicale: è ancora possibile parlare di famiglia in modo univoco? Di una sua inalienabile identità basata su alcuni caratteri fondanti, rintracciabili in ogni cultura e società?
Esiste un proprium della famiglia? Promuovere la famiglia così intesa è un modo efficace per affrontare le questioni antropologiche scottanti?
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Il dato costitutivo del proprium della famiglia è la sua natura intrinsecamente relazionale.
La famiglia infatti non si definisce soltanto in riferimento ai soggetti che la compongono (l’uomo, la donna e i loro figli), ma mette contemporaneamente in campo il legame di appartenenza che si instaura tra di loro. È quella specifica forma di “società primaria” che tiene insieme e di fatto permette un armonico sviluppo delle differenze costitutive dell’umano – quella sessuale tra l’uomo e la donna e quella tra le generazioni (nonni, padri, figli). La famiglia è istituita per dare forma sociale alla differenza dei sessi in quanto generatrice di vita.
Il riconoscimento della famiglia come relazione specifica tra i sessi e le generazioni richiede pertanto una chiara valorizzazione dell’istituto matrimoniale.
Si capisce bene perché il Servo di Dio Giovanni Paolo II, nella Familiaris consortio (n. 43) affermi che la famiglia è il luogo insostituibile di «esperienza di comunione e di partecipazione».
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L’identità della persona è strettamente connessa sia alla presenza della coppia generativa, sia alla storia delle generazioni di cui è espressione. È questo un dato costante, comune ad ogni esperienza familiare. Né si tratta di un dato puramente biologico. Infatti «con la famiglia si collega la genealogia di ogni uomo: “la genealogia della persona”» (Giovanni Paolo II).
In questo sta la forza drammatica della famiglia. Essa, infatti, costituisce per ogni uomo, tanto nei suoi aspetti positivi che in quelli negativi, la via privilegiata per cogliere e sviluppare la propria identità personale. Quello che siamo e pensiamo di noi, la fiducia che nutriamo in noi stessi, in una parola il valore della nostra singolare persona sono in larga misura fondati sulla possibilità di sperimentare un senso di appartenenza al corpo familiare nel succedersi delle generazioni. La fiducia di base di un bambino nei confronti della vita, la sua consapevolezza di essere un soggetto degno di essere amato e capace di amare nella sua irripetibile unicità di persona, nasce e si sviluppa all’interno del contesto familiare.
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La famiglia è per eccellenza il luogo di un’educazione basata sulla scansione “riconoscimento-promessa-compito”. Questi tre fattori costitutivi dell’esperienza morale elementare comune ad ogni uomo non si possono mai separare. Il benessere di una famiglia coincide anzitutto con la sua capacità di rispettare e promuovere questo ethos sostanziale che educa alla fiducia, alla speranza, alla giustizia e alla lealtà.
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C’è una stretta relazione tra appartenenza alla società e appartenenza ad una famiglia: la famiglia è matrice dell’appartenenza sociale, in essa nasce la fiducia, si sviluppa la capacità di cooperare responsabilmente al bene comune in un incessante scambio reciproco. Per queste sue prerogative la famiglia viene considerata un capitale sociale primario che, se consolidato e incrementato genererà benessere per l’intera comunità sociale, se consumato o indebolito porterà inesorabilmente allo sfaldamento del tessuto societario. Fino ad oggi la forza della famiglia ha compensato, fungendo da volano, la spinta destabilizzante di scelte compiute a livello politico sociale in un’ottica prettamente individualistica. Penso alla mancata equità generazionale e alla notevole penalizzazione delle generazioni più giovani. Il rapporto tra generazioni diverse all’interno di una stessa famiglia ha fatto sì che laddove la circolazione equa di risorse veniva interrotta a livello sociale, essa si riattivasse attraverso il codice della reciprocità e della solidarietà nelle reti familiari. La famiglia sostiene i costi prevalenti del ricambio generazionale: in questo suo essenziale ruolo sociale dovrebbe essere favorita.
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“L’umana sofferenza e l’opera del Redentore”
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Nella storia dell’umana famiglia l’aggressione del dolore e della sofferenza sembra non spegnersi mai. Incalcolabili sono le sue manifestazioni, né si finisce di immaginarle tanto ci sorprendono, sempre di nuovo, in forme inedite. Come tutte le realtà elementari di cui l’uomo universalmente fa esperienza (la conoscenza, l’amore, ecc.), anche il dolore e la sofferenza sono difficili da spiegare. Dolore e sofferenza non sono fenomeni identici. Il dolore fisico, quando ha la funzione di segnalare una minaccia per la vita, pur essendo l’espressione di qualcosa di negativo, non è in sé e per sé un male. Il male non è il dolore, ma la minaccia per la vita che il dolore segnala. I dolori anginosi, se porteranno alla cura delle coronarie, possono essere considerati un ingegnoso dispositivo della natura che rivela l’esistenza di una minaccia per la vita. Il dolore fisico trapassa in sofferenza quando diventa autonomo, perde questa sua funzione di segnale ed indica una decurtazione della vita. Quando, ad esempio la sordità affligge un violinista o l’artrosi paralizza un chirurgo.
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Oggi però prende sempre più peso un atteggiamento molto pragmatico che intende aggredire frontalmente il dolore e la sofferenza nel tentativo di eliminarli. Nasce dal potere scientifico e tecnologico che, soprattutto nel campo della medicina, sembra rendere l’uomo padrone della salute e della vita nella convinzione che, in un futuro neppure tanto lontano, il dolore e la sofferenza potranno essere sconfitti.
In questa prospettiva tragedie come quelle dell’Aquila e di Viareggio diventano una pietra di inciampo (scandalo), perché svelano il permanere di una marcata impotenza di fronte alla violenza di certi mali. Rispuntano insicurezza, paura ed angoscia.
Del resto l’attuale ossessione salutista, che persegue solo un indefinito benessere corporale, si scontra con l’esperienza elementare dell’uomo «uno di anima e di corp»” (Gaudium et Spes 14). Nella singolare unità costitutiva della persona si compendiano i vari livelli della vita del cosmo: da quello materiale, vegetale, animale, a quello spirituale che implica conoscenza del mondo esterno, autocoscienza, coscienza morale fino alla libera decisione.
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Ma all’uomo che sperimenta il male radicale (Kant), il male ingiustificabile (Nabert), il male innocente (don Gnocchi) la tesi della permissione del male da parte di Dio può bastare?
Gesù Cristo non ha elaborato alcuna teoria per spiegare l’esistenza del dolore e della sofferenza nel mondo. Egli ha imparato «l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto» (Eb 5,8-9) ha attuato un’opera di redenzione in forza della quale ogni sofferenza riceve luce. Per questo «la risposta cristiana al Mistero della sofferenza non è una spiegazione, ma una presenza» (Cicely Saunders).
Nell’opus Dei di Gesù Cristo, il Figlio fattosi uomo per noi, Colui che poteva non morire, morendo ha inchiodato tutto il male assumendolo direttamente su di sé. Non ha sperimentato solamente atroci sofferenze di ordine fisico, ma consegnandosi liberamente alla morte di croce ha fatto un’esperienza irrepetibile di dolore morale: l’abbandono da parte del Padre.
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Gesù ha vissuto questa esperienza liberamente – sponte, dice Sant’Anselmo -. La Sua missione, in obbedienza alla volontà del Padre, non fu solo la scelta della solidarietà di Dio con l’umanità sofferente, ma anche una scelta compiuta al nostro posto. Non solo con noi, ma per noi (sostituzione vicaria). Le sofferenze, la morte e la risurrezione di Gesù hanno la forza di espiare tutti i peccati del mondo. Siamo di fronte al mistero insondabile del dolore umano del Figlio di Dio, al dolore abbracciato dalla libertà umana della Persona divina del Verbo. Niente era più contrario all’innocenza di Gesù quanto l’espiare (purificare, come si evince dalla sua radice etimologica ex-pius) per i peccati che non aveva commesso, ma proprio perché è il “Puro” in assoluto, bevendo il calice della sofferenza come antidoto della morte, vince la morte ed il peccato in nostro favore.
Ci aiuta a comprenderlo qualche dato di esperienza: per l’uomo è impossibile compiere imprese encomiabili di qualsiasi tipo senza una dose elevata di sofferenza; nella vita di ogni uomo non esiste genuina fecondità senza dolore; soprattutto, l’uomo che compie ingiustizia viene restaurato nella sua dignità tramite l’espiazione che lo riconduce nella verità. (Da qui scaturiscono importanti conseguenze per il sistema penitenziario. La pena infligge una sofferenza il cui scopo non può essere la vendetta, ma il medicinale recupero nella verità del condannato).
Il Redentore, morendo sulla croce al nostro posto, svela tutta la fecondità del dolore.
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L’opera compiuta dall’amore di Cristo non resta riservata alla sua singolare persona. Tanto meno può essere ridotta a pura sorgente di ammirazione. Essa ha la forza di contagiare ogni umana sofferenza per mutarla in opera di amore e di speranza.
La sofferenza dell’uomo, investita dall’amore del Crocifisso, diventa a sua volta feconda. Per quanti, esplicitamente o implicitamente, aderiscono a Cristo questa prospettiva della vita piena (eterna) è già in atto. Qui, nella storia, non unicamente nell’al di là. Lo confermano molti uomini e donne, non solo i santi già canonizzati dalla Chiesa: la sofferenza è in grado di mutare le sorti della storia personale e sociale (Pastorelli di Fatima), perché partecipa della Redenzione di Gesù.
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La scienza medica è chiamata a tentare con tutte le sue forze di far regredire il più possibile i confini della malattia e della morte, senza mai dimenticare che anche le situazioni di sofferenza estrema, e perfino il morire, possiedono un significato obiettivo nell’economia della vita umana.
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