VENEZIA – Continua l’excursus cominciato lunedì 11 giugno in preparazione alla festa del Redentore 2011. Verranno proposti, nei prossimi giorni, alcuni estratti dei discorsi pronunciati dal 2003 ad oggi, quasi a ripercorrere un percorso che si chiuderà domenica 17 luglio 2011 con l’ultima celebrazione del Redentore presieduta dal card. Scola.
Qui di seguito alcuni passaggi del discorso pronunciato il 16 luglio 2006, “Educare nella società in transizione“, e di quello proposto l’anno successivo (15 luglio 2007), “Infrangere il tabù dell’anima per giovarci delle scienze” (su questo sito sono disponibili anche i testi integrali):
“Educare nella società in transizione”
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Avere cura del gregge è il compito affidato dal Redentore alla Sua Chiesa e da essa sentito come primario. In un certo senso tale compito ne definisce la natura profonda. Ben consapevole del comando «erunt sempre docibiles Dei» (cfr. Gv 6, 45), la Chiesa è, per essenza e permanentemente, soggetto educativo.
Nel quadro dell’indomabile passione pedagogica della Chiesa intendo quest’anno concentrare la mia attenzione su di una questione cruciale: quella dell’educazione.
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Senza educazione infatti non c’è progresso. Progresso viene da pro-gredior, “corro avanti”. Può esserci progresso perché non mi reputo già arrivato. Se non mi aspettassi nulla di nuovo, se ritenessi di essere arrivato, non avrei più bisogno di correre in avanti, di progredire. Ma per progredire, per innovare è necessario educare. In ogni settore dell’umana intrapresa oggi si richiede innovazione e giustamente se ne identificano i fattori portanti. Una cosa è certa: non ci sarà innovazione se l’educazione non sarà rimessa al centro dell’interesse e delle preoccupazioni delle persone, delle famiglie, dei corpi intermedi, di tutta la società civile e quindi dello Stato stesso. A maggior ragione per la transizione in atto nel Nordest dove, come abbiamo avuto modo di ricordare qualche anno fa, il modello di sviluppo è chiamato a diventare modello di civiltà. Non a caso si parla di capitale umano e di capitale sociale come di risorse imprescindibili per reggere la sfida dell’internazionalizzazione dell’economia nella civiltà delle reti. In particolare la circolazione o l’erosione di capitale sociale – inteso come il frutto maturo di relazioni sociali improntate alla fiducia e alla collaborazione – rappresenta la cartina al tornasole della capacità educativa delle comunità locali.
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Sarebbe illusorio parlare di educazione senza chiamare espressamente in causa tre categorie fondamentali: persona, realtà, libertà. Poiché è manifestazione sublime di cura, forma piena di “governo”, l’educazione nasce e vive di rapporti interpersonali. Non vi è cura senza farsi carico di tutta la persona. E la persona, a differenza del semplice individuo, mette in campo la relazione. Relazione con gli altri secondo una gerarchia di prossimità che, iniziando dai genitori, si dilata alla famiglia, ai vicini, alla scuola, all’università, al variegato mondo del lavoro. Relazione poi con le “cose” ed il cosmo, con le “circostanze” e la storia.
L’educazione è, in sintesi, la capacità di mettere consapevolmente in relazione la persona con la realtà. Tutta la persona e tutta la realtà sono in gioco nel rapporto costitutivo – interpersonale, ma sempre immerso in comunità – tra educatore ed educando. L’educazione è nello stesso tempo questione personalissima ed affare di popolo. Si può ben capire che non vi possa essere educazione senza libertà. Se educare è “prendersi cura” dell’altro, allora questo significa pro-vocare la sua libertà ad ospitare la realtà, in un confronto appassionato, a 360 gradi. In questo senso l’educazione esige da tutti gli attori in campo auto-esposizione e testimonianza.
Come afferma suggestivamente la sociologa Margaret Archer «ciò di cui ci prendiamo maggiormente cura» nasce da un «processo attivo di riflessione che avviene in un dialogo interiore». Il processo educativo del “prendersi cura” evidenzia cioè, le «nostre premure fondamentali» (ultimate concerns) le quali sono «ciò che ci rende esseri morali» .
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Se l’aver cura richiesto ad ogni educazione domanda la capacità di coniugare libertà – personale e comunitaria – e realtà, allora si capisce come la libertà di educazione sia un irrinunciabile carattere distintivo di una società veramente libera. Il grado di civiltà di una società si giudica soprattutto a partire dal peso e dalla libertà dati al fattore educativo da parte delle Istituzioni che sono chiamate a promuoverlo e a garantirlo.
La libertà di educazione misura la natura autenticamente democratica e popolare di una società. Di conseguenza giudica anche la capacità dello Stato di svolgere la sua funzione di promotore e garante di una società civile in cui le persone e tutti i corpi intermedi – anzitutto i genitori e le famiglie – in piena libertà possano esercitare, tra gli altri, il diritto fondamentale primario di istruzione e di insegnamento. Ma quest’ultimo resterebbe velleitario se non fosse accompagnato dal diritto di costituire delle associazioni e di intraprendere delle attività sociali, culturali ed economiche.
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Una piena libertà di educazione, poggiata su un sistema effettivamente plurale, è esigita anche dalla molteplicità e complessità delle discipline in cui versa oggi l’oggetto dei saperi che scuola ed università sono chiamate ad elaborare e a comunicare. Questo stato di cose orienta alla formulazione di un “patto educativo” fra famiglia, scuola e i diversi soggetti sociali, culturali ed imprenditoriali perché contribuiscano a liberi progetti educativi. L’educazione infatti è l’esito di una rete di relazioni tra soggetti educanti. È anzitutto un fatto “corale”, non una funzione specialistica. Ciò non preclude, anzi comprende, la necessità di distinguere compiti e responsabilità tra i diversi soggetti. Sarebbe utopico contrastare l’elevato tasso di complessità e differenziazione, immaginando un ritorno a forme pre-moderne di comunitarismo.
Una piena libertà di educazione potrebbe inoltre più facilmente consentire quell’unità del soggetto del sapere che a me pare inseparabile dall’aver cura che, come abbiamo detto, regge ogni proposta educativa.
L’unità del soggetto del sapere poggia su due principi che possono essere accettati da una società che si vuole autenticamente laica e plurale come quella italiana di oggi. Il principio della conoscibilità del reale e quello della capacità dell’umana ragione di ospitarlo.
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“Infrangere il tabù dell’anima per giovarci delle scienze”
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La concezione tecnoscientifica della vita umana e della sua storia è divenuta assai rilevante nelle democrazie avanzate soprattutto dell’Occidente. Se la democrazia plurale si costruisce autonomamente solo su procedure, è però la tecnoscienza (non più le religioni e le filosofie) a volerci dire che cos’è la vita nella sua origine, nel suo svolgimento e nel suo termine. A ben vedere il fenomeno stesso della globalizzazione è strettamente dipendente dal fatto che l’Occidente sta imponendo a tutto il mondo una concezione della felicità come puro prodotto progressivo della tecnoscienza. In questa visione delle cose non v’è più posto per l’anima, la risurrezione della carne, la vita eterna.
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Ci si può anzitutto porre una domanda. Una simile visione della realtà è per l’autentico profitto della stessa tecnoscienza? Veramente la questione della vita, dello “spirito di vita”, dell’ “Io” (Self) (per finire, dell’anima) è compiutamente risolvibile nel rapporto mente / cervello assunti come sostitutivi dei concetti di anima, di psiche e di bios?
Conviene anzitutto rilevare che la tecnoscienza fa leva su una visione del reale che consente la progressiva scoperta solo di ulteriori stati di cose, ma non quella di ulteriorità di senso rispetto a quello definito dall’impresa scientifica. Riaffiora qui obiettivamente il rischio, che ogni autentica impresa scientifica deve invece scongiurare, di una nuova forma di riduzionismo (non di corretta “riduzione”) che finisce per produrre inedite, potenti varianti di scientismo, che in ogni sua forma, da quelle più rozze a quelle più raffinate, è fondato su una triplice ingiustificata identificazione: “ciò che è” è “ciò che è conoscibile”; “ciò che è conoscibile” è “ciò che è conoscibile scientificamente”; “ciò che è conoscibile scientificamente” è “ciò che è conoscibile mediante la scienza empirica”. Così che, in definitiva, solo le scienze, e in specie quelle empirico-sperimentali, ci danno la conoscenza di ciò che è.
Non la scienza astrattamente intesa, che giustamente non accetta regolazioni estrinseche, ma l’uomo di scienza non può però eludere la domanda: l’orizzonte della ragione umana oltrepassa o no l’orizzonte della ragione scientifica?
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Per meglio profittare dei frutti buoni della tecnoscienza dobbiamo affermare la necessità di dare soluzioni appropriate alla questione di fondo: che cosa consente di rispondere adeguatamente alla “domanda delle domande”, che sempre rispunta in ogni stagione della storia umana e che anche il neuroscienziato non può non lasciar affiorare quando, nel pieno rispetto dello statuto e dei metodi delle sue scienze e delle sue tecniche, indaga sull’Io (Self)? La risposta si lascia alla fine concentrare nel riconoscimento dell’unità duale (anima/corpo) costitutiva di ogni singolo uomo, in cui si esprime quella tensione tra le componenti dell’umano che domanda stabilizzazione all’interno di un’unità che la precede, senza poterla risolvere. La natura drammatica dell’io spalanca la ragione, quale finestra aperta sul reale, in tutte le sue dimensioni, e quale conoscenza del reale come intelligibile. Anche lo scienziato che fa riferimento alla ragione teorico-scientifica e pratico-tecnica non può che trarre profitto dal riconoscimento di questa antropologia dinamica.
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