Il dolore dell’uomo e l’opera del Redentore: riportiamo qui il commento al Discorso del card. Scola di don Corrado Cannizzaro, insegnante di teologia e Bioetica allo Studium Generale Marcianum.
“I frequenti richiami a numerosi autori e il saldo aggancio alla concretezza dei grandi temi bioeticiattuali (fine vita, cure palliative…) che troviamo nel Discorso del Redentore 2009 del card. Scola, lasciano intravedere alcuni pilastri che ne costituiscono l’ossatura portante. Quali sono? Ne abbiamo ravvisato almeno due, più una fondamentale indicazione di metodo.
Il primo pilastro è costituito dall’attenzione alla persona sofferente considerata in tutta la sua complessità. «Salute e malattia riguardano sempre tutto l’io» afferma il card. Scola, e più oltre chiarisce che «benessere e dolore non sono separabili… da una domanda di senso». Così, a partire dalla lancinante richiesta di significato, emerge in tutta la sua prepotenza la questione antropologica.
Nulla di nuovo, dirà l’attento frequentatore del pensiero del Patriarca.
Eppure proprio nel continuo richiamo alla centralità dell’uomo e del suo autentico valore sta la novità. Infatti, in un contesto bioetico in cui ci si affanna a litigare su questioni meramente procedurali o su posizioni evidentemente ideologiche, è insostituibile la voce di chi sa ricondurre l’attenzione del dibattito a ciò che veramente conta: la realtà complessa dell’uomo, il senso profondo del suo esistere, il significato autentico del vivere e del morire, dello star bene e del soffrire, grandezze ultimamente personali (non perché individuali e quindi del tutto relative, ma nel senso che toccano e coinvolgono la radice profonda di ogni uomo, ossia la persona).
La bioetica, prima che di diritto o di morale, è una questione sostanzialmente antropologica.
A questa profondità – ecco il secondo pilastro – si colloca l’annuncio cristiano, fondato sull’opera del Redentore: il Cristo infatti «non ha elaborato alcuna teoria per spiegare l’esistenza del dolore o della sofferenza nel mondo», egli al contrario «ha compiuto un’opera di totale immedesimazione nella sofferenza».
Il nostro mondo politico e culturale è troppo spesso fautore di una bioetica da salotto, tutta intenta allo sfoggio (ipocrita) di idee e concetti. «La risposta cristiana al mistero della sofferenza – afferma il Patriarca, citando C. Saunders geniale inventrice dell’hospice per malati terminali oncologici – non è una spiegazione, ma una presenza». La risposta alla questione antropologica che attanaglia il cuore dell’uomo di oggi allora non è un discorso, ma un “essere là”, anche senza dir nulla; silenziosa ma attiva presenza che, opera, assiste, lenisce… ama. È la presenza di Cristo, l’unico Redentore che con la sua croce e risurrezione – ossia la sua feconda opera di obbedienza – ha salvato il mondo, accogliendo la sofferenza di ogni uomo. Lontano da Lui, al di fuori del suo abbraccio crocifisso, nulla più ha senso; tantomeno l’umano soffrire.
Il Patriarca ci suggerisce anche il metodo più corretto per avvicinarsi a questi temi: partire dall’esperienza.
Molto discretamente egli prende le mosse dalle visite ad alcuni malati gravi o gravissimi compiute durante la visita pastorale: «La questione per me si è fatta più urgente, direi indilazionabile, a partire dai volti, dagli sguardi e dalle parole, poche ma radicali, che mi sono state rivolte da loro e dai loro cari». Solo chi – come Gesù – è accanto anche silenziosamente a chi soffre può essere trafitto nel cuore e cominciare a comprendere.
Allora le parole non bastano e non servono più: non c’è nulla da dire, c’è solo da imparare.”